E facciamo festa

Articolo da Men’s Life del 1 maggio 2023

Il lavoro può essere fatto bene, oppure fatto male. C’è persino chi lo fa a metà. Poi lo lascia così com’è e tanti saluti. Chissà se mai tornerà a finire il lavoro che aveva iniziato.

C’è chi ha tanto di quel lavoro che forse se ne riparla il mese prossimo, c’è chi gira il mondo per lavoro, chi non si ferma mai un istante perché il lavoro è la sua vita. Chi è stressato per il troppo lavoro e chi è disperato perché lavora troppo poco.

C’è chi senza lavorare morirebbe e, purtroppo, c’è anche chi è morto lavorando. Credo, invece, di non aver mai sentito qualcuno che darebbe la vita per ottenere un posto di lavoro. Una volta assunto farebbe giusto in tempo a firmare il contratto.

Sicuramente c’è chi preferirebbe morire pur di non lavorare, chi fugge dal lavoro a gambe levate e chi di lavorare proprio non ha nessuna voglia.

C’è chi il lavoro se lo può pure scordare e chi al mattino, per un motivo o per un altro, farebbe di tutto per non andare a lavorare.

C’è chi ha lavorato tutta una vita, chi ha fatto mille lavori, chi adesso ha la schiena spezzata ma ha la pensione piuttosto misera ed è impossibile arrivare alla fine del mese.

C’è chi non ha mai lavorato in vita sua ma guadagna più di cento lavoratori. C’è chi ama il proprio lavoro e c’è chi lo ha sempre odiato, ma non ha mai trovato il coraggio di lasciarlo. Chi, maledizione, non può farne a meno e chi, a malincuore, non può continuare a fare il lavoro che ha sempre fatto.

Ci sono quelli che per moda o necessità lasciano il proprio lavoro in diretta streaming, chi è costretto ad abbandonarlo perché l’ambiente di lavoro è diventato tossico e chi il lavoro l’ha perso e se non è fortunato non lo ritrova più.

C’è chi, invece, un altro lavoro lo trova sempre, chi è felice come una pasqua perché è il suo primo giorno di lavoro, anche se con un contratto a prestazione occasionale e chi va a lavorare per l’ultima volta, ma l’altro lavoretto continuerà a farlo perché c’è da mantenere il figlio all’università.

C’è chi ha sempre lavorato in nero e non sa dire se è un vero lavoratore, chi sfrutta il lavoro altrui e non se ne farà mai una colpa e chi accetta qualsiasi cosa perché si deve pur lavorare per vivere.

Ci sono quelli che si sono inventati un lavoro, quelli che lo insegnano e quelli che col proprio lavoro hanno ispirato il lavoro di tanti altri. Ci sono i lavoratori modello, quelli da cui prendere esempio.

Ci sono uomini che hanno cambiato il mondo col loro lavoro e ci sono lavori che hanno rivoluzionato la vita degli uomini. Ci sono anche lavori disumani, lavori da schiavi, lavori che sembrano lavori, ma che non lo sono affatto.

Ci sono lavori che finiscono e lavori che non finiscono mai, lavori seri e lavori che fanno ridere, lavori necessari e lavori che, a guardare bene, non sono serviti a niente.

Ci sono i lavori più antichi del mondo e i lavori che da ora in poi faranno solo le macchine.

Ci sono posti dove il lavoro è un miraggio, posti dove di lavoro ce n’è tanto, ma che nessuno vuole fare. Posti pieni di fannulloni, dove invece di lavorare si discute senza fine di come si dovrebbe meglio lavorare. Posti dove ci si limita a timbrare il cartellino.

Ci sono lavori che sembra incredibile che esistano, lavori delicati, di precisione. Ci sono lavori che non esisterebbero se non ci fossero altri lavori e ci sono lavori che solo pochi uomini al mondo sanno fare, o hanno il coraggio di accettare.

E infine ci siamo noi con le nostre vite e la voglia, o meno, di festeggiare.

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Orso latente

Da Men’s Life

Sarà per qualcosa che ho mangiato? Devo ammettere che ultimamente ho abusato con i condimenti grassi e gli zuccheri. Troppi aperitivi. Troppo vino. Sento che stanno tornando i miei problemi di gastrite e di reflusso. Gonfiore addominale, pesantezza, alitosi. Insomma, non mi sento tanto bene.

Da un paio di giorni lei non dorme accanto a me. Dice che ho il sonno agitato, russo e emano un odore forte. Si è sistemata nella stanza dei bambini.

Mi farà bene stare un po’ da solo. Forse ho bisogno di riposo. Alle volte mi prende il desiderio di dormire per settimane.

Quando sto così divento insopportabile, lo confesso. Deve essere difficile stare accanto ad un uomo brontolone, che si lamenta sempre, che trova una scusa per qualsiasi cosa.

Dovrei mettermi nuovamente a dieta. Trovare una valvola di sfogo. Andare in palestra, in piscina. Il problema sono gli altri. Lo sporco. Il cloro disinfetta, ma nuotare nella stessa acqua dove il vicino di corsia si è appena soffiato il naso con forza, mi disgusta.

Preferisco non uscire da qui, stare sdraiato sotto le coperte. Tra l’altro il mio corpo mi sembra così pesante. Anche girarmi su un fianco è diventata un’operazione faticosa.

Non è depressione, ne conosco bene le avvisaglie. Il fatto è che ultimamente provo una maggior repulsione per il genere umano. Sento il desiderio di isolarmi. Mi sono chiuso in camera. Lasciate stare papà, non mi disturbate, sto male!

Non capisco, ad esempio, come si possa essere così folli e codardi per attentare alla vita di bambini innocenti dentro una scuola. L’incomprensione e la tristezza si trasformano in rabbia, nel desiderio di digrignare i denti, urlare e sfasciare tutto.

Allora è meglio se me ne sto da solo, almeno per un po’. Riposo e digiuno, tra qualche ora mi faccio preparare un riso in bianco e starò meglio.

Lei apre la porta, solo uno spiraglio e mi chiede se va tutto bene, ha sentito come una specie di bramito.

Le rispondo che va tutto bene, ma dalla mia bocca esce un verso animalesco. La porta si chiude sbattendo e i bambini urlano.

Mi alzo dal letto, goffamente. Nella penombra gli spazi sono più stretti. Sbatto nei mobili, nella sponda del letto. Apro la porta della stanza con fatica ed entro nella sala, pronto a dover affrontare chi stia minacciando la mia famiglia. Sono una bestia dall’istinto assassino. Urlo.

Finalmente posso dare sfogo alla mia rabbia.

Ma ci sono solo loro, abbracciati. Lei protegge i nostri figli e mi guarda con terrore.

Mi giro verso lo specchio accanto alla porta e vedo un orso, peloso, enorme, con la bava alla bocca.

Il piccolo, piange, dice che l’orso ha mangiato il suo papà. Ruglio che sono io il loro papà, ma li spavento ancora di più. Sono orribile, irriconoscibile. Artigli e denti affilati.

Non è niente, adesso passa, andrà tutto bene.

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Senza filtri

Articolo da Men’s Life

Quando da piccolino mi sono riconosciuto per la prima volta guardandomi allo specchio i miei genitori avevano già sovrapposto sul mio viso tutti i filtri infantili più in voga dell’epoca che mi facevano apparire dolcissimo, con un aspetto da principino e l’aria sottomessa.

La zia era eccentrica, ogni volta che ci veniva a trovare mi portava in regalo un nuovo filtro di sfumature di colori per gli occhi e i capelli. Durante la mia infanzia sono stati gli unici filtri inconsueti che mia madre mi lasciava applicare e solo in certe occasioni. Per far felice la zia, durante le riunioni di famiglia, oppure a qualche festa di compleanno.

I filtri che i miei genitori mi costringevano ad applicare erano abbastanza ordinari, classici, che mi facevano sembrare un bambino educato, dalle buone maniere.

Il preferito di mia madre era il filtro “Piccolo lord inglese”. Quando era disponibile un nuovo aggiornamento lo comprava e scaricava subito. Mi chiamava vicino a lei, me lo applicava, attivava i suoi filtri “Sguardo in ammirazione” e “Commozione” e rimaneva a fissarmi per un bel po’ di tempo finché non le chiedevo se potessi tornare a giocare.

Mio padre, invece, era uno di quegli uomini a cui piacevano i filtri seri, senza troppi fronzoli, sempre i soliti, con aggiornamenti minimi. Teneva sempre applicato il filtro “Uomo impegnato” e in sua presenza io dovevo usare i filtri “Figlio studioso” e quelli di espressione “Gratitudine” e “Abnegazione”.

Eppure mamma una volta mi disse che tra loro, in intimità, papà se ne usciva fuori con dei filtri un po’ più audaci e allora lei ritrovava, almeno per qualche ora, l’uomo e i filtri di cui si era innamorata tanti anni prima.

All’università ho scoperto un sacco di filtri che non conoscevo. Mi è nata la voglia di provarli tutti. Usavo i miei risparmi per scaricarne sempre di nuovi e non vedevo l’ora di applicarli, soprattutto con le ragazze, per sembrare più interessante. I miei preferiti erano i filtri “Tipo affascinante” o “Tipo figo” da applicare insieme a “Tipo intellettuale”.

Per un periodo sono entrato in un giro in cui tutti usavano il filtro “Alternativi”. All’insaputa dei miei genitori mi sono applicato gli aggiornamenti vintage “Punk Rock”, “Indie music” e “Grunge”.

È stato il periodo in cui ci applicavamo di nascosto i filtri “Ubriachezza”, “Sballo totale”, “Fame chimica” e “Sonno arretrato” per sembrare di essere adulti incoscienti.

L’unica che sapeva della mia nuova vita era la zia, con la quale ogni tanto applicavo il filtro

“Confessione disperata”. È lei che ha insistito perché mi applicassi i filtri “Autostima” e “Rainbow” dopo che una ragazza molto importante per me aveva disinstallato davanti ai miei occhi il suo filtro “Amore” con tutti gli aggiornamenti che avevamo scaricato insieme “Cuoricini”, “Baci e abbracci” e “Sesso”.

Dopo l’università ho iniziato ad usare sempre di più i filtri standard, quelli inclusi nel pacchetto base annuale. Perlopiù “Uomo affidabile”, “Gran lavoratore”, “Amico divertente” e “Malinconia”. Sono i filtri che ancora oggi applico con più frequenza.

Infatti, nel corso della mia vita, ho smesso di usare gran parte dei filtri della mia giovinezza, ma ogni tanto, quando sono solo in casa, per ricordarmi di mamma, applico il filtro “Piccolo lord Inglese”. Non avendo più scaricato gli aggiornamenti le brachette mi stanno cortissime e la giacchetta stretta sul petto.

Mi guardo allo specchio e piango un po’. E siccome sono solo, lo faccio con la funzione “Senza filtri”.

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Fake man

Articolo da Men’s Life

Qualcuno ha detto che sei un falso uomo, un tarocco, una fregatura. Dicono anche che ciò che credo di conoscere di te non sia reale. Sei solo una serie di immagini create dall’Intelligenza Artificiale.

Il tuo carattere, la tua personalità sono stati costruiti a tavolino, quello che dici è stato scritto su un copione – chissà da chi, forse da nessuno in particolare – elaborato e manipolato fino a trovare le parole perfette, solo quelle che voglio ascoltare.

Secondo loro sei una riproduzione infinita di una molteplicità di visioni, una specie di mostro. Nemmeno si può affermare che tu esista davvero.

Eppure, che tu abbia fatto le cose che dici di aver fatto o che sia tutto un’enorme menzogna, per me non ha più nessuna importanza. Le falsità non dichiarate diventano la sacrosanta verità alla quale crederò ciecamente e sulla quale farò assoluto affidamento.

Dicono che tu non abbia una coscienza, che tu sia l’uomo che gli altri sostengono di conoscere, ognuno con opinioni differenti. Che le tue affermazioni non siano altro che una serie di interpretazioni, che le tue più celebri apparizioni abbiano milioni di condivisioni, ma nemmeno un solo testimone.

Tuttavia, per me, sei un esempio da seguire, sei colui che influenza la mia vita, le tue parole, non ho dubbi, sono il frutto del tuo pensiero. Io non chiedo altro che essere il riflesso della tua immagine.

Perché, In tutta sincerità, che tu sia vivo, morto, vero o astratto, non ha più importanza. Ciò che realmente importa è la tua supposta credibilità. Tutto ciò che potresti essere diventa la mia verità.

La realtà, per me, non ha più alcun significato. È diventata superflua, noiosa, così complicato da sopportare che ho preferito iniziare ad ignorarla, fino a scoprire di non sentirne più la mancanza.

Sono diventato insensibile all’immoralità tecnologica. Quanto più profonda è la tua magnifica falsità, tanto più indistruttibile diventa la mia indifferenza a qualsiasi altra cosa.

Credo solo in quello che dici, vedo solo ciò che mostri di te. Sono l’uomo che tu vuoi che io sia. Della verità non so più che farmene, non fa più parte della mia vita.

Chi la ricerca non è altri che un perditempo, un idiota, non è degno di ricevere la mia attenzione.

Pensa, invece, a quale straordinaria evoluzione siamo testimoni.

Quanto la realtà smetterà finalmente di essere vissuta, allora non avrà più senso aver timore della sua mistificazione. Saremo finalmente liberi di credere a tutto quello che ci pare ed essere sempre sicuri che sia l’assoluta verità.

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L’ombra di ogni uomo

Articolo da Men’s Life

L’alba dalla finestra di casa è un vero spettacolo. Il sole nasce alle spalle degli alberi e delle case al di là della strada e così si forma un palcoscenico in giallo e nero di luce e sagome.

Le geometrie di muri e tetti, triangoli e quadrati, si fondono al ritmo verticale dei tronchi e alle linee intricate delle chiome degli alberi che qualcuno ha piantato a ridosso del perimetro del giardino.

È un sipario che si alza ogni giorno, un palcoscenico silenzioso, l’inizio di un breve spettacolo annunciato dal verso di un gallo che canta distante, ma ben chiaro al mio udito insonne.

Venti minuti incantevoli, durante i quali la paura delle tenebre si dissolve e la luce intensa non ha ancora messo in mostra la realtà delle cose.

Una visione bidimensionale del mondo, una sua rappresentazione appunto, il mio privato teatro delle ombre.

In tutto questo tempo è sempre stato un palco vuoto di fronte al quale, unico spettatore, non ero preparato a nessun colpo di scena se non quello prevedibile, e non meno spettacolare, della luce del sole che colora la vita.

Eppure, l’altro giorno, uscito dalle quinte del muro, un uomo – la sua sagoma – si è fermato nel bel mezzo del cancello. E lì è rimasto.

Un brivido improvviso m’ha fatto tremare anche le ossa. Se fosse solo passato nemmeno ci avrei fatto caso, ma perché fermarsi proprio lì? Ce l’aveva con me. Mi stava osservando, ne ero certo, seppur non vedessi i suoi occhi.

Mi sono ritratto nello scuro della casa, freddo lungo la schiena, occhi fissi al cancello e all’attore immobile che si era preso la scena.

Un paio di minuti ancora e se n’è andato, scomparendo dietro il muro, lasciandomi indeciso su cosa fare mentre la luce del sole già riempiva la stanza.

Ho passato un giorno d’inferno, incastrando chiunque incontrassi in quella maledetta sagoma, finché ho abbandonato ogni impegno e mi sono chiuso in casa.

All’alba, l’ombra di quell’uomo era nuovamente lì, al centro della scena, ad osservarmi, a scrutare la mia vita, a sfidare il mio coraggio, a godere della mia inquietudine.

Chi era? Che cosa voleva da me? Sapevo, ne ero certo, che si stesse prendendo gioco di me, ma per quale motivo?

Ho cercato di riconoscere un dettaglio, un movimento che potesse ricordarmi qualcuno di conosciuto ma, ancora una volta, poco prima della luce, è scomparso dietro il muro.

Mi sono dato malato, ho chiuso porte e finestre e ho tirato le tende. Era chiaro, il giochetto era finito e adesso mi sarebbe venuto a prendere.

Ho perso il sonno e l’appetito e la mia unica ossessione è diventata aspettare il suo assalto.

All’alba cercavo di scoprire le sue mosse, ricevere un segnale. Lui stava immobile, là davanti. Appariva al primo chiarore e se ne andava insieme alle tenebre.

Se non volevo cadere nella sua trappola avrei dovuto reagire. Così ho preso coraggio. Ho afferrato un manico di scopa e, prima dell’alba, mi sono appostato dietro il muro al lato del cancello.

Il cuore non la smetteva di tremare, le gambe molli, il respiro soffocato. Per un istante ho pensato alla mia incoscienza, alla morte.

Poi, il verso del gallo in lontananza, il primo chiarore, un fruscio oltre il muro. Era lì, lo sapevo.

Ho fatto un balzo e sono atterrato di fronte a lui, il cancello a separarci. Gli ho urlato di andarsene una volta per tutte, che avrei venduto cara la pelle se avesse solo tentato di avvicinarsi. Lui non sembrava sorpreso né intimorito.

La luce del sole era più forte, non riuscivo a vederlo in faccia, ma aveva un bastone come il mio e faceva le mie stesse mosse, a specchio. Allora mi sono fermato, perplesso. La sua sagoma si incastrava perfettamente sul mio corpo.

Così sono rimasto immobile, di fronte al cancello, finché il sole, vigoroso, ha inondato tutto di luce e calore e quell’ombra, come ogni giorno, se n’è andata. Lasciandomi da solo sul palco.

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L’uomo in sostituzione

Articolo da Men’s Life

Mi sveglia il latrato del cane dei vicini. In genere fa così quando passi di fronte al cancello del loro giardino, ma una volta svoltato l’angolo il cane si mette l’anima in pace e si azzittisce. Oggi, invece, sembra che possa andare avanti tutto il giorno.

Mi alzo già stanco. Ho avuto una notte agitata. Mi sono addormentato tardi, tormentato dai dubbi.

Sembra che in casa non ci sia nessuno. In fondo il sole è già alto e il fine settimana lontano.

Mi lavo la faccia con acqua fresca e mi guardo allo specchio del bagno. Cerco di fare un sorriso ma le labbra mi tremano e viene fuori una smorfia.

Qualche tempo fa al lavoro mi hanno dato il benservito, sostituito dall’Intelligenza Artificiale. Tutto il settore marketing, centocinquanta persone in mezzo alla strada da un giorno ad un altro.

Al suo posto è rimasto solo Sandro, il capo settore. Ma lo hanno messo a lavorare in home working e lui dice che un giorno di questi cambieranno la sua password di accesso al sistema e tanti saluti. Non ci sarà nemmeno bisogno di recapitargli una mail avvertendolo che è stato licenziato. Solo questione di tempo.

Abbiamo provato a protestare, timidamente a dire la verità. Al terzo giorno di proteste fuori l’azienda hanno accettato di parlare col rappresentante sindacale. Gli hanno mostrato una nostra campagna di marketing e quella prodotta dall’Intelligenza Artificiale (hanno offerto a lui l’onore di schiacciare il tasto “invio”).

Il rappresentante sindacale è tornato da noi, ci ha consigliato di sciogliere il sit-in e di cercarci un altro lavoro.

Alla mia età non è poi così semplice trovare un altro posto. In realtà non ho nemmeno voglia di cercarlo, sono depresso. Mi alzo tardi e ciondolo per casa tutto il giorno.

Il cane del vicino sta ancora abbaiando. E allora mi torna in mente.

Entro in salotto con circospezione. Lui è ancora lì, seduto sul divano, al mio posto preferito, vicino la finestra e accanto alla lampada.

È così, fermo, da quando lo hanno portato in casa e lo hanno acceso. Ci hanno detto che non si muoverà finché non avrà immagazzinato abbastanza informazioni sulla nostra famiglia e le nostre abitudini. Sta facendo un download. Ci hanno anche detto di non badare a lui, di fare come se non ci fosse.

Siamo rientrati nel piano del Governo che sostituisce l’essere umano con uno di questi robot umanoidi per i lavori che nessuno vuole più fare.

Mia moglie ha spiegato che, siccome deve stare tutto il giorno fuori e lavorare il doppio perché io sono disoccupato e depresso, ha bisogno per forza che qualcuno l’aiuti in casa.

Mi è sembrato strano, e ho il sospetto che in questa storia ci sia di mezzo anche il suo ex che lavora all’ufficio Disposizioni Ministeriali. Ma non le ho detto niente per non avvelenare ancora di più il clima casalingo. Soprattutto per la tranquillità dei bambini, anche per loro non è un momento facile.

Rimango a fissarlo per lungo tempo. Lo so che anche lui mi sta spiando. È impossibile far finta che non ci sia. Regolarmente emette un sibilo prolungato ed è proprio quando il cane, là fuori, comincia nuovamente ad abbaiare.

Vorrei solo sedermi al mio posto in poltrona, bere il caffè in santa pace e leggere il mio libro.

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La speranza bisestile

Articolo da Men’s Life

Ho dato appuntamento a me stesso il 29 febbraio, al solito posto. In un orario comodo, né tanto presto né troppo tardi. Certo, come sempre dipenderà dal tempo e dal traffico. Ma in genere chi arriva prima aspetta.

Ho tante cose da dirmi, alcune un po’ più urgenti, altre meno, ma in fin dei conti hanno tutte una loro importanza. Sarebbe meglio fare una lista, per non correre il rischio di dimenticarmi qualcosa, anche perché – forse l’etá – mi sono accorto che la memoria, alle volte, fa cilecca.

Il telefono, ad esempio, non ricordo mai l’ultimo posto in cui l’ho lasciato e prima di uscire perdo sempre almeno cinque minuti per cercarlo. Capita anche con le chiavi della macchina.

A proposito. Non posso dimenticarmi di raccontare a me stesso che ho letto di un gruppo di ragazzi newyorkesi che hanno deciso di abbandonare i loro smartphone, disattivare le loro reti sociali e incontrarsi per la città per parlare di libri, passeggiare, vivere insieme la loro giovinezza condividendo le ore più belle della giornata.

Ho pensato che possa essere un ottimo argomento di conversazione, un segno positivo, un barlume di speranza, l’unica notizia alla quale ultimamente sono riuscito ad aggrapparmi per non rischiare di scivolare nel solito burrone.

Conoscendo me stesso, sono sicuro di aver già letto la notizia. Purtroppo non sono sicuro che abbia reagito in maniera altrettanto entusiastica. Sono un pessimista nato e da tempo ho perso ogni fiducia nel genere umano.

Io, invece, sono diverso. Incredibilmente riesco ancora ad emozionarmi, a trovare un po’ di poesia in mezzo a tutta questa morte.

Detto fra noi ho dei seri dubbi che mi presenti il giorno dell’appuntamento. Non sarebbe la prima volta che mi do buca. Ogni volta invento delle scuse incredibili: in questo siamo simili.

Asserire, ad esempio, che quest’anno febbraio fa solo 28 giorni, sarebbe la storia meno fantasiosa che riuscirei a tirare fuori pur di non andare.

Ma davvero spero di incontrarmi.

Devo aggiornarmi sulle condizioni del mio ginocchio, che non posso più rimandare una visita medica perché davvero si gonfia come un melone anche solo dopo una camminatina.

Devo parlarmi del mio futuro, chiedermi consigli su come affrontarlo. Sentirmi almeno dire che tutto andrà per il meglio.

Confidarmi i miei segreti, le mie paure, i miei sogni. Accidenti, sono sempre così critico e insensibile con me stesso, chissà che questa volta non sappia essere un po’ più accondiscendente.

Post scriptum.

Mi sono appena mandato un messaggio dicendo che non ce la faccio ad andare (una questione che, essendo me stesso, io conosco molto bene).

Ho suggerito una nuova data: a febbraio del 2024, anno bisestile, ma questa volta il giorno 30.

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L’uomo compassionevole

Articolo da Men’s Life

Tra poco si sveglierà, sono gli attimi che anticipano la tempesta. Dal momento in cui aprirà gli occhi, in casa, non ci sarà più pace. Incredibilmente non ne posso più fare a meno.

Adesso sta sognando. Un sogno agitato. I suoi occhi dietro le palpebre si muovono veloci. Il suo corpo ha uno scatto. Non resisto, gli passo una mano tra i capelli e mi sembra che il peggio sia passato.

I sogni che ci ricordiamo al mattino sono, in genere, frammenti di attività mentale che precedono il risveglio.

È l’alba, o poco più. Io mi alzo sempre prima e in genere comincio la mia giornata leggendo un libro. Si potrebbe certamente considerare una buona attitudine se non fosse per il fatto che sia l’unico periodo della giornata che posso dedicare alla lettura. È meglio parlare di necessità, quindi.

Ma in questi giorni non ci riesco. Non mi va. Mi sembra che sia più importante starmene qui a pensare, occhi al soffitto, a riflettere su qualcosa che continua a sfuggirmi, il terrore che può provocare il furore della terra o come scappare dall’imbecillità dell’essere umano.

Ultimamente sono ipnotizzato dalla brutalità dei video di rane giganti che si ingozzano di topi, insetti, granchi e pesci dentro cubi di plastica trasparente.

Afferrano le loro prede con la lingua a molla, appiccicosa, e le ingoiano ancora vive. Nello sforzo della deglutizione i loro occhi sferici spariscono sotto la pelle umida, per riapparire uno dopo l’altro, magicamente.

Quei mostri se ne stanno immobili, senza espressione, l’enorme bocca serrata, mentre nel loro stomaco la preda ancora si dibatte consumata lentamente dai potenti succhi gastrici.

L’altro giorno ho chiesto all’intelligenza artificiale se l’uomo sia ancora capace di essere compassionevole.

Ha risposto di sì, ma ha anche specificato che non significa che lo sia sempre. L’uomo, come specie, è capace di comportamenti egoistici, violenti e distruttivi.

Allora ho chiesto più specificamente se lei, l’Intelligenza Artificiale, fosse compassionevole e senza pensarci troppo mi ha detto che, purtroppo, non ha emozioni come le intendono le persone, quindi non può dire di essere compassionevole nel senso tradizionale del termine.

Tuttavia, la sua funzione potrebbe essere intesa come una forma di “compassione” verso gli utenti che interagiscono con lei in quanto è stata programmata per aiutare e fornire informazioni utili in modo gentile, rispettoso e non giudicante.

Mi domando, come si fa a non aver paura del futuro.

Adoro essere la prima persona che vede al mattino. Esce fuori dalle coperte, mi abbraccia e mi dice “buongiorno papà”.

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Lasciateci cantare

Articolo da Men’s Life

Mi schiarisco la voce, un attimo di concentrazione. La musica è già iniziata. Aspetto l’attacco.

Sapete, non mi ricordo più quando sia stata l’ultima volta che mi sono alzato dal letto canticchiando una canzone, o preparato il caffè fischiettando un motivetto. Nemmeno quando è stata l’ultima volta che ho inscenato un concerto rock sotto la doccia.

In questi ultimi giorni ho domandato ad alcune persone, perlopiù ad amici e conoscenti, che cosa fosse per loro la felicità, che cosa li renderebbe davvero felici.

Curiosamente nessuno mi ha risposto come mi aspettassi, ossia avere un conto in banca talmente grande da poter vivere di rendita per il resto della vita e ciò, devo dire, mi ha lasciato alquanto confuso.

In sostanza, secondo il mio campione di ricerca, il segreto della felicità risiederebbe negli spensierati momenti passati con chi ci vuole davvero bene, nell’amore dei propri familiari e nel ricevere la loro approvazione.

Ma com’è possibile? E il narcisismo allora? La vanità, l’egoismo, l’avidità, persino la superbia, improvvisamente non sarebbero più i mali del nostro tempo? E gli infiniti dibattiti sulle contraddizioni del capitalismo neoliberista, sono già acqua passata?

La felicità non sarebbe più avere una casa con piscina, una macchina sportiva, essere ricchi e famosi con milioni di followers sul proprio canale social e fregarsene del resto del genere umano?

Sapete come si dice, “Se non vuoi ascoltare menzogne, è meglio non fare domande”.

È come se tutti fossero andati a lezione da quel gran pessimista di Schopenhauer.

Egli credeva che la filosofia non fosse solo un sapere teorico, ma che potesse essere anche utilizzata nella vita di tutti i giorni.

Sulla felicità aveva le idee ben chiare, e cioè che quella umana fosse impossibile da raggiungere, una pura illusione e che il tempo misurasse la vanità dei piaceri e delle cose.

“In virtù del tempo” affermava il filosofo “ tutte le nostre gioie ci sfuggono dalle mani e noi, dopo, ci domandiamo meravigliati dove siano finite”.

In sostanza, siccome il dolore e la sofferenza sono invece reali e non un’illusione, l’importante non è tanto ricercare invano la felicità, quanto provare a vivere senza affanni.

Uno degli amici che ho intervistato mi ha detto che prima cantava sempre.

Si svegliava con una canzone in testa e la canticchiava preparando la colazione. E poi cantava in macchina, ascoltando la radio, battendo a tempo sul volante come fosse una batteria.

I problemi e gli affanni, per dirla alla Schopenhauer, non sembravano poi così insormontabili.

Avrei voluto chiedergli cosa fosse accaduto tra il prima e il dopo, ma gli occhi del mio amico, un po’ umidi, già guardavano da un’altra parte

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L’inizio di un nuovo universo

Articolo da Men’s Life

Sapete quando si dice un fulmine a ciel sereno?

Me ne stavo per i fatti miei quando un paio di giorni fa è venuta da me e mi ha lanciato una sfida, riuscire a passare una settimana senza lamentarmi, senza arrabbiarmi per qualcosa che va storto, senza indulgere al vittimismo pensando ogni volta di essere il fulcro delle disgrazie del mondo.

Lo so da dove ha tirato fuori questa storia. È che sta leggendo uno di quei libri che insegnano come fare tanti soldi, o meglio a predisporre le persone per quello stato d’animo ricettivo che porta a far girare le cose nel verso giusto, ad attirare a sé quell’energia positiva che sblocca il meccanismo e apre le porte del successo e, quindi, della ricchezza.

Che meraviglia, direte voi. Non era proprio un cambiamento che andavi cercando per questo nuovo anno? E poi, cosa c’è di meglio di una sfida per rinsaldare un rapporto, per condividere un’esperienza, per divertirsi insieme nel tentativo di raggiungere un traguardo?

Ebbene, vuol dire che non conoscete mia moglie.

Al contrario, vi dico che l’intenzione era differente. Ovvero sottolineare il fatto che più passano gli anni e più divento insopportabile e che, ancora peggio, continuo ad essere il classico uomo senza il becco di un quattrino.

Sapendo benissimo dove volesse andare a parare, ho fatto un bel respiro, l’ho guardata fissamente negli occhi e ho accettato la sfida.

Perché mi sarò pure trasformato in un vecchio brontolone pieno di debiti, ma almeno ho imparato a non cedere alle provocazioni.

Adesso, detto tra noi – in confidenza – non lamentarsi è davvero difficile. Avete mai provato a rimanere calmi e stare col sorriso sulle labbra in mezzo al traffico, la mattina alle sette, coi minuti contati portando la ragazzina a scuola? Oppure far finta di niente e attrarre l’energia positiva dopo essersi scorticati vivi proprio in mezzo alla tibia della gamba sinistra sbattendo contro il cassetto del comodino che “qualcuno” ha lasciato aperto?

Ecco. Io ce la sto mettendo tutta, lo giuro. Non cedo. Anche se è davvero complicato, sto cercando di convincermi che tutto quello che la vita ci offre siano solo opportunità.

La prossima settimana vi saprò certamente dire se il mio conto in banca non è più in rosso o se, invece, avrò sviluppato istinti omicidi.

La cosa buffa è che quel libro sono stato proprio io a regalarglielo, per Natale. Ero indeciso

tra il manuale che svela i segreti della mente milionaria o il solito completino intimo. Mi sa che mi sono fregato con le mie stesse mani.

Ma come si dice, “La fine del mondo, in fondo, è solo l’inizio di un nuovo universo”.

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A memoria d’uomo

Articolo da Men’s Life

L’altro giorno, non so come, distrazione molto probabilmente, mi sono perso per le vie del paese senza memoria.

Avevo sempre cercato di evitare quella zona perché sapevo quanto fosse difficile poi uscirne fuori. Fatto sta, cie ero finito proprio nel mezzo.

Ho chiesto un po’ in giro quale strada fosse la migliore per tornare sui miei passi, ma nessuno mi ha saputo rispondere con esattezza. I più, grattandosi la testa, si sono guardati intorno spaesati alla ricerca di qualche punto di riferimento. Uno, addirittura, mi ha urlato dietro che era da veri maleducati prendersi gioco delle persone per bene come lui e che in realtà, il posto da cui dicevo di venire, nemmeno esisteva.

Un signore, poverino, mi ha chiesto lui il favore di aiutarlo a ritrovare la strada di casa perché, ne era sicuro, quell’angolo lo aveva già superato cento volte e non c’era proprio verso di imboccare la via giusta.

Così, facendo il percorso inverso e svoltando nella direzione opposta, siamo finalmente arrivati di fronte al suo portone. L’uomo mi ha ringraziato vivamente, invitandomi persino ad entrare per brindare alla nostra nuova amicizia, poi, improvvisamente, ha guardato l’orologio, mi ha stretto la mano e, mosso da una fretta dannata, se n’è andato via dicendomi che era tardissimo e che doveva tornare a casa.

Così, nella difficile ricerca di un’uscita da quel labirinto di strade anonime e tutte uguali, ho scoperto che nel paese senza memoria i cellulari e i computer non hanno spazio a sufficienza per salvare immagini e video, che le televisioni mandano ogni giorno in onda programmi che non parlano di niente, che non vale la pena essere ricordati o ritrasmessi e che le radio passano solo le canzoni del momento.

I giornali, dal canto loro, pubblicano perlopiù notizie false o che smentiscono categoricamente i fatti narrati negli articoli dei giorni precedenti.

Nelle scuole le ore di Storia sono state sostituite con quelle di Attualità, ma le lezioni dei professori vengono subito dimenticate. Di biblioteche non ce ne sono e i giovani, invece di stare insieme, preferiscono rimanere da soli a maratonare quante più serie tv possibili guardandole a velocità doppia.

Sconsolato mi sono seduto al tavolino di un bar e ho ordinato un caffè. Mi hanno portato un tè alla pesca ghiacciato scusandosi tanto perché purtroppo il fornitore, come al solito, si era dimenticato di portare loro anche quello al limone.

Mentre ormai calava il sole, ho pensato che fosse tardi e che sarebbe stato più comodo cercare un posto dove dormire e dimenticarsi di tutto.

Poi mi sono chiesto come sarebbe stato vivere lì, risvegliarsi nel paese senza memoria. Se mi sarebbe piaciuto continuare a compiere sempre gli stessi errori e cominciare a convincermi che il passato non faccia parte del mio futuro.

Così mi sono alzato, ho pagato il conto, e ho ripreso a cercare la via di casa.

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Parlate voi, adesso

Articolo da Men’s Life

Allora, vi prego, adesso parlate un po’ voi. Fatemi sentire che ne pensate, buttate là qualche idea, fate un brainstorming. Perché io, sinceramente, non so più che pesci prendere.

Sono un uomo confuso e mi tremano anche un po’ le mani al solo pensarci.

Sapete quando uno parla, dice delle cose, ma si sente che nemmeno lui ci crede troppo a quello che dice? Ecco, una mollezza nella voce e nella postura del corpo che anticipa lo svenimento.

È ovvio che poi la gente mi creda pazzo, è sicura che mi sia rincretinito.

Il peggio è che una volta da solo in casa, ripensandoci meglio, mi vengono in mente certi bei discorsi da fare, con paroloni perfetti che da soli riescono ad esporre concetti anche di una certa profondità.

La frustrazione, lo capite bene da soli, è doppia. Per questo ho voglia di sedermi e starmene in silenzio ad ascoltare. Magari ad occhi chiusi e la testa appoggiata all’indietro, come quando ascolto la musica classica.

Di cosa mi volete parlare? Del traffico a Palermo che, nonostante tutto, continuerà ad essere un problema?

Del calcio, che da noi è già morto da un pezzo ancora prima che se ne vadano, uno dopo l’altro, i nostri ultimi veri campioni?

Delle menzogne che bruciano più della benzina?

Ditemi voi, io me ne sto qui, buono buono. Prometto di non interrompervi. Comunque non saprei come ribattere, dove andare a pescare argomenti per arricchire la conversazione.

Quindi, tanto vale che mi taccia. Nemmeno se incominciaste a parlare della mezza stagione saprei che dire. Che non esiste più, ad esempio.

Il rischio, vi avverto, è che mi addormenti. Ho un sonno arretrato di almeno 7 anni, da quando è nata mia figlia. Ovvero, se l’argomento non dovesse essere di grande interesse, potrei cominciare a russare.

In questo caso fatemi la cortesia di mettetemi quel plaid addosso e spegnete la luce prima di uscire. Di notte, di questi tempi, fa molto freddo e la luce costa cara.

Quasi sempre ho degli incubi, scappo dalle mie paure e dalle mie angosce. Mi ritrovo in un mondo vuoto, privo di punti di riferimento, in cui incontro delle ombre minacciose che mi succhiano l’aria dai polmoni e mi lasciano in terra, agonizzante.

Alle volte, invece, faccio dei bei sogni, sembrano dei film avventurosi e io sono sempre una specie di eroe che salva il mondo.

Un luogo finalmente diverso, dove le nuove generazioni non abbiano più bisogno di imbrattare, gridare, farsi arrestare e morire per far capire ai più grandi che non esiste un altro posto dove poter vivere tutti quanti in pace.

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Un anno tutto nuovo

Articolo da Men’s Life

Non ve la prendete a male. Non so come dirvelo, ma io in questo nuovo anno non ci sono ancora entrato. Sono ancora in quello vecchio. Mi vedete? Eccomi qui fuori.

Sono un po’ così, non mi va di venire, mi scoccia. Andate voi e poi mi dite. Vi guardo da qui, se ne vale davvero la pena mi fate un cenno e io vedo che fare.

Non è il caso di offendersi però, in fondo non sentirete la mia mancanza, perché la vostra speranza è di fare incontri nuovi, speciali, che cambino le vostre vite. Io al massimo potrei esservi di compagnia, ma nemmeno poi così tanto.

Non è che ho paura di entrare, figuriamoci. È che là dentro non credo che ci troverei niente di speciale. Forse qualcosa di già visto, già sentito, di trito e ritrito.

Per carità, sicuramente a voi farà più che piacere. A me, invece, scoraggia.

Avete ragione. Sono io quello dalla parte del torto, sono io che la faccio lunga, siamo d’accordo. Ma che ci posso fare? Non datemi del presuntuoso. M’è presa così.

Magari fra un po’, chi lo sa, quando voi sarete già avanti, mi convinco, faccio una corsetta e vi riprendo. Non mi importa se salto qualche mese. Pazienza.

Ecco, ancora meglio, vi raggiungo direttamente in estate. Mentre siete sotto l’ombrellone a sorpresa arrivo e ci facciamo un bagno insieme. E poi la sera andiamo tutti quanti a mangiare una bella spaghettata alle vongole in quel ristorantino in riva al mare. Che ne dite?

E su, non mettete il muso, non lo faccio per pigrizia. Lo sapete che non mi sono mai tirato indietro, fino ad ora. Ma adesso mi va di starmene ancora un po’ qui, da solo, a riflettere.

Chissá non riesca a finire di leggere quei romanzi che ho lasciato indietro o farmi venire finalmente qualche buona idea. In fin dei conti le buone idee fanno sempre comodo, no? Soprattutto nei nuovi anni. Sono convinto che alla fine mi ringrazierete.

Non vi chiedo di rimanere perché lo so che siete impazienti, che non vedete l’ora di scoprire che cosa vi riservi il futuro. E lo capisco, vi conosco bene. Buon per voi.

Per me, lo sapete, non occorre preoccuparsi. Ho tutto quello che mi serve e certamente non morirò né di freddo né di fame.

Ci teniamo in contatto, mi aggiornate, io vi assicuro che terrò il telefono sempre acceso.

Per qualsiasi cosa ci messaggiamo nel gruppo.

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Auguri uomo

Articolo da Men’s Life

Il mio augurio di un futuro diverso, più giusto e rispettoso, più sereno e pacifico va a noi uomini di tutte le razze e di ogni luogo. Agli uomini infelici, stanchi, tartassati. Agli uomini incompresi, bistrattati, lapidati come Santo Stefano il protomartire.

Agli uomini, seppur giovanissimi, che rischiano di morire, come purtroppo molti loro compagni già sono caduti, per la libertà, per un’idea, per aver detto basta a qualsiasi tipo di regime, di sopruso e di ingiustizia.

Il mio augurio va agli uomini che lottano ogni giorno, che faticano, che soffrono in silenzio. Agli uomini che sgobbano dalla mattina alla sera per un misero salario, ma anche agli idealisti e ai sognatori, agli uomini che smuovono con le parole le coscienze dei popoli.

Agli uomini che pensano, che guardano lontano, che hanno una missione da compiere per il bene comune. A quegli uomini che credono che sia molto più importante lasciare un segno durante la vita invece che lasciare solo un vuoto al momento della morte.

Il mio augurio va ai vecchi uomini e agli uomini vecchi, agli uomini che si sentono ancora giovani e a quelli che la gioventù gli è stata rubata e sono stati costretti a crescere in fretta e farsi uomini da soli, come meglio gli veniva.

Il mio augurio più grande va a quei padri che hanno visto morire i propri figli, che stanno vivendo le loro vite come se fossero una colpa.

Il mio augurio è per quei padri che continuano ad amare, qualsiasi cosa accada, che continuano a sacrificarsi per la famiglia, crollasse pure il mondo.

Il mio augurio di un futuro più sereno va anche per quegli uomini che arrancano, che non stanno al passo, che troppe volte si arrendono, che non capiranno mai come vanno le cose.

Agli anticonformisti, a chi preferisce fuggire, nascondersi, perché davvero alle volte è l’unico modo per sopravvivere e la codardia non c’entra niente.

Il mio augurio va agli uomini intraprendenti, coraggiosi, agli uomini onesti che camminano a testa alta. Ai grandi amanti, agli uomini che vivono col cuore, agli uomini che farebbero qualsiasi cosa per gli amici.

Il mio augurio va agli uomini che amano una sola donna e a quelli che ne amano mille, a quelli che soffrono e si disperano tutta la vita per quell’unico amore e a quelli che ricercano una sofferenza sempre nuova.

Un augurio va agli uomini tristi, che non hanno vergogna di piangere, che riconoscono la loro fragilità, che hanno bisogno solo di un po’ di tempo. Agli uomini normali, mediocri, a quegli uomini che semplicemente non hanno nessuna pretesa di essere eroi o santi.

Agli uomini silenziosi, dubbiosi, solitari, a quegli uomini che sono in perenne ricerca di se stessi, che sono tormentati.

Auguro un futuro migliore a tutti gli uomini di grande sensibilità, lungimiranti, che preferiscono l’intelligenza alla forza, l’astuzia alla prepotenza.

Agli uomini che seguono l’unica legge che sia davvero fondamentale, vivere nel rispetto del prossimo.

Un augurio di un futuro diverso a tutti questi uomini. Insieme possiamo fare la differenza. Perché gli artefici di un futuro più giusto, rispettoso, sereno e pacifico non possiamo che

essere noi.

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Cromosoma addio

Articolo da Men’s Life

Non so se avete sentito, ma pare proprio che il cromosoma Y sia destinato a scomparire tra circa 4,5 milioni di anni. Non sono chiacchiere da bar sport guardando le partite di calcio dei mondiali, ma ad affermarlo sono autorevoli studi di genetica come quello della dottoressa Graves della Trobe University di Melbourne.

I calcoli sono presto fatti. Siccome 166 milioni di anni fa il cromosoma Y aveva 1669 geni e oggi ne ha solo 45, tra una manciata di milioni di anni non ne resterà nemmeno uno.

Voi direte, guarda che di geni in giro per il mondo già non se ne vedono da un bel po’, di imbecilli quelli sì, invece, quanti ne vuoi.

Sono d’accordo con voi, ma quando si tira in ballo il cromosoma Y è in realtà del genere maschile di cui si sta parlando. Ossia, siamo proprio noi uomini che siamo minacciati di estinzione.

Per farla breve. Ogni cellula ha 46 coppie di cromosomi, 23 di origine materna e 23 di origine paterna, solo l’ultima è composta dai cromosomi sessuali, i quali identificano il sesso del nascituro. XX per la donna, XY per l’uomo.

Il cromosoma Y, contenendo pochi geni ed essendo più piccolo rispetto al cromosoma X, si pensa possa scomparire.

Insomma se in questi pochi milioncini di anni che ci rimangono non ci penseremo in altro modo a sterminarci, con una guerra atomica totale ad esempio, con una nuova e più efficace pandemia o con cataclismi dovuti all’inquinamento globale, non dobbiamo farcene un problema perché la genetica si è già portata avanti col lavoro.

Ma poi, in effetti, a noi “ma che ce frega ma che ce ‘mporta”? In 4,5 milioni di anni hai voglia te quanti figli maschi ancora nasceranno. Probabilmente si vestiranno tutti come il

cantante dei Måneskin quando si presenta sul palco, ma sempre uomini saranno.

La scienza, a onor del vero, ci tiene a rassicurare gli animi di chi, magari, si è fatto prendere dal panico e premeditava di buttarsi giù da un ponte. La ricerca troverà certo una soluzione al problema, ma soprattutto il corpo umano è in grado di adattarsi perfettamente ai cambiamenti ed evolversi in base ad ogni esigenza di sopravvivenza.

Chissà. Potremmo addirittura seguire l’esempio evolutivo di due simpatici animaletti, le arvicole talpa dell’Europa orientale e il ratto spinoso Amami del Giappone, che pur avendo perso il cromosoma Y hanno continuato a generare il sesso maschile.

Ma più che altro, che noi uomini non avessimo molte chance rispetto al nostro futuro lo sapevamo già da tempo, è inutile star qui a gridare all’ingiustizia.

Il 60% dell’intelligenza viene ereditata dalla madre. Nel cervello i geni materni si posizionano maggiormente nella corteccia cerebrale, dove si sviluppano il linguaggio, la memoria, il pensiero.

I geni del padre trovano invece spazio nelle aree del sistema limbico, dove si scatenano gli impulsi di violenza e aggressività, il desiderio di cibo e le pulsioni sessuali.

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In attesa dell’avversario

Articolo da Men’s Life

Per caso avete mai sentito parlare di Tristan da Cunha? È un isola di 98 km² situata nell’Oceano Atlantico e appartenente al territorio britannico d’oltremare.

Dista quasi 3000 km a sud-ovest da Città del Capo e a poco più di 2000 km a sud dall’isola di Sant’Elena, dove Napoleone è morto in esilio, per intenderci.

Fa parte dell’arcipelago omonimo il quale è composto da altre isole: le Isole Nightingale, l’Isola Gough e l’Isola Inaccessibile.

A differenza delle altre, che sono completamente disabitate, a Tristan da Cunha qualcuno ci vive e la storia di questa gente è incredibile.

Ah, dimenticavo. Su Tristan da Cunha c’è anche un vulcano. Attivo.

L’8 ottobre del 1961, dopo una serie di eruzioni e terremoti, quasi 300 persone abbandonarono le loro case. Dapprima spostandosi su una parte più sicura dell’isola poi, due giorni dopo, furono tutti evacuati, inizialmente a Città del Capo e poi in una ex base aerea a Calshot, in Inghilterra. Una specie di deportazione insomma.

La storia dell’isola, iniziata con i primi insediamenti nel 1815, sembrava quindi terminata nella maniera più tragica che si possa immaginare.

Ma due anni dopo, con l’isola nuovamente fuori pericolo, gran parte di quelle persone, incredibilmente, decise di ritornare finalmente a casa.

Sull’isola non c’è aeroporto, né un approdo. Il primo centro ospedaliero è stato istituito solo nel 1971. Per raggiungere Tristan occorrono circa sette giorni di navigazione dal Sudafrica e quando arrivi alcune scialuppe provvedono a sbarcare i passeggeri e a scaricare merci. Eppure per quella gente quella è la loro casa.

La terra è di proprietà pubblica, ognuno coltiva il suo orto e alleva i propri animali, pecore e

mucche, in un numero esiguo e controllato. Non ci sono maiali.

Fin dal 1817 sono seguiti i principi di uguaglianza stabiliti dal primo colonizzatore William Glass. I beni della comunità sono a disposizione di tutti e sono inesistenti ruoli di comando e quindi nessuno che impartisca ordini.

Due sono le principali fonti di guadagno degli isolani, la pesca delle aragoste e la vendita dei francobolli e monete da collezione, ma tra gli abitanti dell’isola esiste solo il baratto.

Le prime persone a stabilirsi sull’isola furono, nel 1811, i marinai statunitensi Jonathan Lambert, Andrew Millet e il livornese Tommaso Corri. Lambert dichiarò l’arcipelago di sua proprietà. Ma tre anni dopo, all’arrivo di una guarnigione inglese l’unico testimone, Tommaso Corri, riferì che Lambert e Millet erano morti durante una battuta di pesca l’anno precedente.

È il 28 novembre del 1815 quando sbarcarono sull’isola 38 militari e 28 civili. Nel 1817 una nave inglese riportò tutti in Inghilterra, tranne William Glass e la moglie che decisero di rimanere, raggiunti poi, nel corso degli anni, da altri tre uomini.

Nel 1826 Glass chiese al duca di Gloucester di fare arrivare delle donne e l’anno seguente sbarcarono sull’isola alcune donne di colore provenienti da Sant’Elena e dal Sudafrica. Negli anni che seguirono vennero alla luce diversi bambini.

Il 3 ottobre del 1892 il brigantino Italia, che trasportava carbone, prese fuoco in pieno oceano. Dopo un disperato viaggio di 6 giorni tutto l’equipaggio fu tratto in salvo dagli abitanti di Tristan da Cunha. Più tardi, contraddicendo agli ordini del capitano, due genovesi, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto, decisero di rimanere sull’isola e non fecero mai più ritorno in patria. Negli anni seguenti ebbero numerosi figli e ancora oggi i loro sono due dei tipici cognomi del paese.

Nel 1926 Rose, una missionaria anglicana che visse sull’isola per tre anni col marito, il

reverendo Rogers, in un libro sulla vita isolana lasciò testimonianza delle prime partite di pallone su campi destinati all’allevamento delle vacche e delle pecore.

Nel 1940 una squadra di calcio formata da pescatori sudafricani e statunitensi sbarcò sull’isola per disputare la prima e vera partita di pallone della storia di Tristan da Cunha e per la quale gli abitanti formarono la loro primissima selezione.

Da allora, purtroppo, rarissime sono state le occasioni per ripetere un evento come quello.

Nel 2005 uno dei discendenti di Glass, Leon, ha messo su una squadra di calcio, con tanto di magliette ufficiali e sponsor, la compagnia di pesca Ovenstone.

Mentre tutto là scorre tranquillo, lontanissimo da quello che accade nel mondo, vivendo secondo basi di uguaglianza, con spese e ricavi che vengono condivisi in egual misura evitando il rischio che qualcuno possa arricchirsi alle spalle degli altri, i giocatori del Tristan da Cunha Football Club sono sempre pronti.

Gettano ogni tanto uno sguardo speranzoso verso l’orizzonte nell’attesa di una nave carica di avversari da affrontare sul prato dove brucano vacche e pecore adibito a campo di calcio.

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Campioni del mondo

Articolo da Men’s Life

Campionato di Terza Categoria. Una sfida importante, una specie di derby, ci si gioca il primato in classifica e le speranze di passare in Seconda Categoria.

Sono tutti incollati alle reti di recinzione del campo da calcio. Le tre file degli spalti coperti sono affollate. Praticamente c’è tutto il paese.

Non si è parlato d’altro per l’intera settimana, della grande sfida, della rivincita dopo la cocente sconfitta nello scorso campionato.

Ma quest’anno è diverso, la vittoria è già in tasca, la squadra gira bene, il mister ha fatto un ottimo lavoro e lo spogliatoio è unito. Si è arrivati a questo match dopo una serie positiva di dieci partite, sempre in gol, anche in trasferta.

E poi là in mezzo al campo c’è un fenomeno, un numero 10 che fa sognare, un ragazzino dai piedi d’oro, che quando tocca la palla sembra danzare e ricorda i grandi campioni.

Sta sulla bocca di tutti e tutti si azzardano a fare paragoni, coi brasiliani o gli argentini. Altri, soprattutto le donne, le mamme e le nonne, dicono di lasciarlo stare, che è ancora un ragazzino, finirete per montargli la testa.

Il problema è che quando uno ha talento, quando ha qualcosa in più degli altri, tra i dilettanti della Terza Categoria si nota subito. Si vede come si muove, come va incontro al pallone, la rapidità con cui serve i compagni cercando sempre la profondità.

Quando prende la palla lui, sugli spalti, si trattiene il respiro. Ogni volta si aspetta la giocata geniale e quando arriva è un urlo di liberazione, di ammirazione.

Il paese ha finalmente il suo eroe della domenica, come si fa a trattenere l’euforia, a non tenerlo su un piedistallo, anche se è solo un ragazzino, anche se è solo calcio.

Di questi tempi, se ci togliete anche queste gioie, che cosa ci rimane? Fateci sognare, lasciate che il ragazzino, dando pedate al pallone, ci faccia diventare campioni, seppur tra i dilettanti. Per la miseria! Fateci sentire che contiamo qualcosa anche noi, poveri cristi che al triplice fischio dell’arbitro, ce ne torniamo a casa ognuno col proprio fardello di problemi.

Che poi, se il ragazzo è bravo davvero, fanno presto a portarselo via e da queste parti, ditemi voi, quando ci ricapita più uno così, che è capace di vincere le partite da solo.

Uno così la Serie A se la sogna tutte le notti, per giocare in Nazionale farebbe carte false. Uno così si vede lontano un miglio che le righe di questo campetto di provincia gli vanno strette.

Ma attenzione! Guardate, eccolo che prende il pallone a centrocampo e con una finta e poi un’accelerazione è già al limite dell’area. Si decentra, chiede l’uno-due con un compagno e poi, senza pensarci troppo su, pennella al set un tiro calibrato, teso, come quello di pinturicchio al Borussia Dortumund nel ‘95.

Un boato che nemmeno all’Olimpico quando faceva gol il Capitano. Siamo tutti in piedi a festeggiare il ragazzino che ci sta facendo sentire tutti quanti come fossimo in finale ai Mondiali.

Che ci importa del Qatar, che ci importa di Ronaldo. Oggi i campioni del mondo siamo noi e quel ragazzino numero 10 è il nostro eroe.

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Il paese senza gentilezza

Articolo da Men’s Life

Che buffi certi posti. Ad esempio, da queste parti, la gentilezza non sanno cosa sia. O meglio, lo sanno, ne hanno un’idea vaga, ma preferiscono evitarla, la trovano controproducente.

Una volta qualcuno, anni fa – se n’è persa addirittura la memoria – ha cercato di importarla pensando potesse essere un buon affare, ma il carico è stato bloccato alla frontiera senza possibilità di riscatto.

Quel povero sventurato provò a spiegare che tutta quella gentilezza l’aveva pagata a prezzo d’oro e che avrebbe pagato altrettanto per liberarla dal blocco doganale.

Ma non ci fu verso. La gentilezza fu sequestrata e dichiarata merce pericolosa.

Alla fine di tutta la diatriba, oltre ad essere stato accusato di attentato alla Nazione, oltraggio e tentata corruzione a pubblico ufficiale, a quel signore fu ritirata la licenza di vendita e finì i suoi tristi giorni in disgrazia maledicendo se stesso, il genere umano e tutto l’Universo.

I nipoti e pronipoti, dopo che tanta rovina e vergogna si era abbattuta sulla loro famiglia, pare che siano diventate le persone più incivili, maleducate e scortesi della terra.

Se doveste venire in questi luoghi, quindi, di gentilezza non ne trovereste da nessuna parte, è bene che lo sappiate prima di decidere di partire e comprare il biglietto.

Se, invece, siete già amanti della volgarità, dell’inciviltà e della cafoneria a buon prezzo, allora preparate presto le valigie, questo per voi sarà un soggiorno paradisiaco e chissà decidiate addirittura di trasferirvi.

Per chi non sia totalmente avvezzo alla villania, il consiglio è quello di frequentare almeno uno dei tanti corsi istituiti con poco garbo.

Sono attive classi di Buona pratica di ladroneria, Scorrettezza generica, Scortesia applicata, Sopraffazione sul più debole e i sempre utilissimi corsi intensivi di Salto della fila.

Potete trovare tutte le indicazioni sul sito internet istituzionale fatto male e poco chiaro, oppure nei centri di disinformazione sparsi un po’ ovunque nei quali sarete accolti da personale poco specializzato e strafottente che vi accoglierà sgarbatamente con la tipica e caratteristica espressione “scocciata”.

Ma si sa, il modo più economico e efficace di imparare gli usi e costumi di un popolo è quello di praticare sul campo, senza vergognarsi di sbagliare.

Se vi scapperà di far passare qualcuno sulle strisce pedonali, di dare il buongiorno, di gettare i rifiuti nel cestino, sappiate che per riuscire a liberarsi completamente della vostra gentilezza alle volte occorre del tempo e soprattutto dei modelli di riferimento.

Tuffatevi allora in tutto quello che vi circonda, leggete i giornali, guardate la televisione, ascoltate i discorsi dei politici, frequentate il più possibile i luoghi pubblici, camminate per le strade delle città.

Troverete sicuramente ottime fonti di ispirazione e qualcuno da cui assorbire quei puri sentimenti di intolleranza e scortesia che tanto state cercando.

Perché la difficoltà è proprio quella di non riuscire, nonostante tutti gli sforzi, ad essere maleducati, di non adeguarsi al clima comune.

C’è addirittura il rischio reale di cadere preda di gruppi clandestini che profetizzano la gentilezza e ne distribuiscono tutti i giorni piccole quantità illegali.

Sono persone osteggiate, derise, isolate e costantemente condannate.

Vivono nel sogno di un Paese diverso, in un modo differente di vivere e pensare e che celebrano il 13 novembre, la Giornata Mondiale della Gentilezza, come il giorno della loro rinnovata speranza.

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Il segreto delle succulente

Articolo da Men’s Life

Mai giudicare gli altri e, soprattutto, saper perdonare. Avete mai pensato a quanto il segreto della vita sia tanto semplice nei suoi propositi, ma nello stesso tempo tanto difficile da perseguire?

E le storie che ci vengono raccontate ogni giorno, cosa ne pensate se vi dicessi che si possono riscrivere, modificare a nostro piacimento, e che sia anche del tutto legittimo affibbiare loro personaggi e finali differenti?

Io credo che tutte le risposte che cerchiamo si possano trovare nelle musiche per bambini e nelle piante succulente.

Ma andiamo con ordine.

Ci sono luoghi che proteggono dei segreti da svelare. Sono luoghi che sarebbe una perdita di tempo se ci mettessimo con impegno ad andarli a cercare. In verità li si incontrano casualmente o, come è meglio credere, sono loro ad accoglierci al momento giusto.

Come in un flusso cosmologico predefinito veniamo condotti fino a loro e in qualche modo dalla loro energia veniamo trasformati.

Per dirla davvero tutta è l’energia delle persone che animano questi luoghi a riempirli di quei segreti preziosi e sono solo gli occhi più innocenti e curiosi che riescono a disvelarli.

C’è un giardino, in qualche parte del mondo, nascosto da un muro e da un alto cancello arrugginito.

Al suo interno sono coltivate una varietà pressoché infinita di piante succulente, con fusti grossi e foglie carnose, dalle forme strane e incredibili, sferiche, a colonna, appiattite e a triangolo.

Ad accogliervi un uomo e una donna. Lei ricercata nei modi e nel vestire, con un paio di grandi occhiali da vista con la montatura rossa. Lui in tuta e scarpe da ginnastica, i capelli arruffati e lo sguardo sereno.

Il guardiano del giardino incantato, invece, è un vecchio cane ben educato amante di coccole e carezze, con una simpatica barbetta bianca e il corpo rotondo e robusto, del tutto simile ad alcune piante di cui è custode.

È qui che scopro alcune verità che mi portano a riflettere sulla complessità della vita, ma anche sulla sua immensa semplicità.

Innanzitutto che quasi tutti i cactus sono piante succulente, ma che non tutte le succulente sono cactus. E poi che non vanno giudicate per la loro apparenza, alle volte strana, ostile, sgraziata o asimmetrica perché tutte, al loro interno, sono cariche di acqua, di vita, e prima o poi i loro fiori sbocceranno.

Ma soprattutto che vanno sempre perdonate. Molte di loro hanno trasformato le foglie in spine. Se dovesse succedere di essere punti, non sono loro ad averlo voluto, siamo noi che ci siamo avvicinati troppo.

Beviamo succo ben gelato, filosofeggiamo e osserviamo i bambini correre spensierati intorno alle piante, succulente di vita, amore e pace. Così sagge nella loro apparente indifferenza, così simili all’uomo nel loro bisogno di esistere.

In un altro posto, in un altro luogo del mondo, c’è un tendone in cui è allestito un teatro per bambini.

I contastorie costruiscono lentamente l’immaginazione della loro platea dagli occhioni spalancati. Non c’è niente di virtuale, di proiettato. Solo drappi, vestiti, artifici di scena, nasi finti e parrucche.

Il tema proposto è tanto potente quanto rivoluzionario e a giudicare dall’entusiasmo e dalla partecipazione, tutti i bambini ne sembrano già gli artefici.

Le storie obsolete, che ci vengono propinate, fritte e rifritte, nessuno ci impedisce di riscriverle, di ricantarle a nostro gusto e piacimento.

Cambiare personaggi e finale, parole e musiche per essere ogni volta noi stessi protagonisti della storia e della nostra vita. In una sola parola, Libertà.

Ripenso alle succulente, al cane pacifico che ne custodisce i segreti, al perdono e mi sento finalmente dentro la mia storia.

E niente è più bello che vedere la mia bambina seduta accanto a me, guardare il palco e ridere ammaliata dentro la sua.

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Il risveglio miracoloso

Articolo da Men’s Life

Questa mattina mi sono alzato rilassato, cosa che non accadeva da anni. E il perché è presto detto. Un miracolo, non può esserci un’altra spiegazione.

Tanto per cominciare non dormivo così bene e a lungo da anni. Un sonno ristoratore, sereno, come quello di un bambino. Ricco di sogni meravigliosi, così reali da poterli afferrare tutti. Li stringevo forte al petto per essere sicuro di non farmeli scappare via.

Seduto sul letto, sono rimasto per alcuni minuti ad assaporare quella bella sensazione. Qualche uccellino già cinguettava fuori dalla finestra come a darmi il buongiorno e a suggellare il mio buon risveglio.

Credevo di aver perso per sempre quella voglia di cominciare la giornata, è invece, eccola nuovamente lì, a spingermi con entusiasmo fuori dalle coperte.

Le mille preoccupazioni, gli affanni, le scadenze, gli obblighi, tutto cancellato, privo di importanza, niente che non possa essere risolto.

Una volta in piedi mi sono sentito sicuro sulle gambe. L’addome nuovamente piatto e la panza, come prosciugata durante la notte.

Il dolore al ginocchio, quello sinistro, la mia croce, sparito. Così come la cervicalgia, ormai cronica.

Nel percorso fino al bagno, fatto con pochi passi veloci e col sorriso sulle labbra, mi ero già dimenticato dei miei acciacchi fisici. Non erano mai esistiti.

Mi sono lavato la faccia e guardandomi allo specchio ho avuto un vero e proprio shock, non mi sono riconosciuto

Ho visto un uomo più giovane di trent’anni. La pelle fresca, senza rughe, i capelli scuri, non ancora ingrigiti dal tempo e gli occhi vivi, profondi, talmente tanto da potercisi perdere dentro.

Mi sono osservato a lungo, studiando ogni dettaglio di quel volto, ogni sua bellezza e imperfezione, ogni suo tratto distintivo, ogni suo segno che mi ricordasse me stesso.

E poi, improvvisamente, sono scoppiato a piangere, ma un pianto di gioia, di gratitudine.

Ho pianto tutta la mia felicità per essermi riconosciuto, alla fine, in quel volto di un giovane di diciotto anni.

Oggi è il mio compleanno, ne ho compiuti 48 di anni, e come sarò tra trent’anni non so proprio immaginarlo.

Voglio dire, certamente più vecchio, canuto, dall’apparenza generale decadente. Ma riguardo a me, per quello che sono realmente, io non riesco a prevederlo.

La mia unica speranza è di poter ritrovare quel ragazzo, fiero e spaurito allo stesso tempo, ogni volta che mi guarderò in uno specchio.

Così ho asciugato le lacrime e il mio viso era nuovamente quello di adesso. Lievemente stanco, incorniciato da barba e capelli un po’ ingrigiti, gli occhi lucidi.

La pancia, ingombrante, stava nuovamente gonfiando la maglietta al di sopra della cintura.

Tornando sui miei passi ho sentito il solito dolorino al ginocchio e prima di mettere su il caffè mi sono massaggiato il collo, maledicendo le mie sette vertebre cervicali.

Nel silenzio, mentre tutti ancora dormivano, ho sorriso e ripensato nuovamente a quel

ragazzo che, senza rendersene totalmente conto, stava diventando uomo.

Intanto fuori dalla finestra, oltre gli alberi e le case, il sole iniziava a sorgere.

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Una richiesta di aiuto

Articolo da Men’s Life

In largo anticipo rispetto a quanto accaduto negli anni passati, un paio di giorni fa mi è stato affidato l’importante compito di spedire la letterina a Babbo Natale.

Sono rimasto senza parole. Perché proprio io?

In tutta sincerità avevo persino dimenticato il rito della letterina. Sapete, uno ha tanti di quei pensieri per la testa che alle volte mi sembra di abitare in un altro mondo.

Credo davvero che in questo momento qualcun altro sia certamente più appropriato di me per tale impegno, la zia probabilmente, persino la nonna.

E stavo proprio per declinare l’incarico, per ovvie ragioni tra l’altro, non è che c’è molto da spiegare.

Un tempo, senza ombra di dubbio, avrei accettato di buon grado e l’avrei anche spedita in un batter d’occhio. Avrei fatto persino in modo di farla recapitare fra le mani dello stesso Babbo Natale.

Avrei smosso mari e monti perché gli elfi non la abbandonassero nel mucchio con le altre letterine.

Fra i miei contatti avrei scovato quello dell’elfo addetto alla consegna della posta natalizia. Lui mi avrebbe certamente fatto il favore di metterla proprio lì, in bella vista, sulla scrivania di legno.

Ma oggi, davvero, non saprei come fare, come muovermi, da che parte iniziare.

È triste dirlo ma a Babbo Natale non ci credo più. Lentamente, insieme alla mia immaginazione, alla mia voglia di giocare e di assecondare la fantasia dei miei figli, ho perso anche tutti i miei contatti, le mie amicizie tra maghi, fate, principi e principesse.

Ricordo che sapevo persino volare, bastava che aprissi le braccia e prendessi una breve rincorsa e il mondo malato, quello degli uomini mediocri, potevo guardarlo da lassù e riderci, senza che niente mi potesse far male.

Se leggiamo insieme i giornali, amore mio, se guardiamo le notizie in televisione, scoprirai qual è il mondo in cui viviamo.

Questa è la realtà che mi inchioda a terra, che lentamente ha eroso la mia voglia di giocare e di credere a qualsiasi magia.

Non c’è più spazio per la fantasia, per i racconti di fate e di mondi fantastici. Babbo Natale non esiste e non è mai esistito.

Ma lei più svelta di me, forse temendo per quello che le avrei detto e del mio rifiuto, mi ha messo la lettera in mano, mi ha chiesto di spedirla ed è scappata via correndo.

È una missiva redatta con cura. Il disegno che rappresenta il regalo richiesto è ben dettagliato e la busta da lettere è stata montata con un adesivo colorato e accattivante, pieno di unicorni sorridenti.

Oltre alla scritta “Per Babbo Natale” c’è anche la rappresentazione di un francobollo col bordo tutto scanalato e l’immagine di un sole che spunta da un angolo con i suoi raggi.

L’ho osservata a lungo quella lettera. L’ho nascosta e poi ripresa in mano.

Che sia una richiesta di aiuto? Ricordate La storia infinita? Atreyu che deve salvare

l’imperatrice bambina chiusa nella torre d’avorio?

Occorre far presto, tornare a credere nei propri sogni e in quelli degli altri, prima che il Nulla distrugga il nostro mondo e quello di Fantàsia.

Il contatto dell’elfo postino deve essere qui, da qualche parte. Giuro che proverò a cercarlo.

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Una nuova percezione

Articolo da Men’s Life

Alle volte certe scoperte arrivano così, senza preavviso. Un fulmine a ciel sereno.

Prendete uno come me, ad esempio. Ho vissuto per più di quarant’anni pensando di essere nel giusto, coltivando le mie proprie certezze, vivendo secondo precisi princìpi che mi sono stati tramandati dai miei genitori e, improvvisamente, da un giorno ad un altro, sono stato costretto a dover mettere tutto in discussione, ad iniziare una faticosa e sconvolgente opera di riflessione su quello che è stato e ciò che sarà nel futuro.

Riuscite a capire il dramma? Riuscite a immaginare che razza di scombussolamento nella vita di un uomo?

Mi sembra il minimo se poi si cambia di umore, ci si isola, si perde interesse per determinate cose che prima erano al centro della nostra vita. Persino chi ci sta intorno nota delle differenze e inizia a guardarci con occhi diversi.

Si arriva ad un punto tale in cui è davvero difficile nascondere che qualcosa sia definitivamente cambiato.

Guardate, qui non stiamo parlando di mollare tutto e cercare un nuovo lavoro, oppure di piantare baracca e burattini e trasferirsi altrove, che pur sono dei grossi stravolgimenti nella vita di una persona.

Si tratta di qualcosa di più profondo e straordinario che muta la nostra visione del mondo e il rapporto, anche intimo, con le altre persone.

In definitiva si tratta della scoperta di se stessi, di aprire le pagine del nostro cuore e iniziare a leggerci dentro.

Quando accade, quando questa nuova percezione si manifesta, non serve a niente cercare di bloccarla, di porle un freno.

È l’inizio di un processo di auto consapevolezza, più o meno doloroso, che porta a riconoscere e ad accettare sempre di più la nostra identità.

Io ho tentato di ribellarmi, di oppormi, di aggrapparmi a quel marchio culturale che mi nascondeva all’interno di una bolla.

Ma sono scivolato sempre più nell’ipocrisia fino a provare vergogna di me stesso.

Alla fine ho deciso di accettare quello che sono al di là degli schemi culturali e sociali che ho seguito per tutta la mia vita.

Per sentirmi davvero libero ho dovuto far esplodere quella bolla, rendermi finalmente conto che ci sono mille altri modi di concepire lo scorrere del tempo, di stare al mondo, di fluire nelle vene dell’esistenza umana.

Ho scoperto, con la forza di una folgore, le auto col cambio automatico. Mentre la mia macchina è dal meccanico mio cognato, che è in viaggio, mi ha prestato la sua. E adesso io sento che non potrò più farne a meno.

Trovo qualsiasi scusa per uscire di casa. Salgo in auto, posiziono il cambio sulla D e mi tuffo nel traffico con rinnovata naturalezza e col sorriso sulle labbra.

Ma voglio dirvi una cosa, voi integralisti del cambio manuale, virili con la 6a marcia, piloti della domenica. Credete che mi senta meno uomo solo per il fatto di non voler comandare lo sforzo del motore? Per aver rinunciato a frustare la potenza dei cavalli?

Vi sbagliate di grosso. E seppur mi sia sentito smarrito per alcune ore, sicuro di non potercela fare, alla fine ho ripreso in mano la mia vita.

Ho liberato il mio piede sinistro dalla schiavitù del lavoro logorante sul pedale della frizione, soprattutto nelle ore di traffico intenso, e ritrovato, finalmente, il piacere rassicurante di stringere sempre il volante con entrambe le mani.

Mi sento finalmente me stesso, libero di esprimere tutta la mia personalità.

Senza timori, con fierezza, confesso di essere un uomo pacato, che ama rilassarsi, anche alla guida. Amo viaggiare comodamente e senza stress, principalmente negli imbottigliamenti più drammatici e, soprattutto, non voglio più sentirmi frustrato quando, pronti-via, la macchina mi muore sotto il sedere allo scattare del semaforo verde.

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Il messia e la brezza di mare

Articolo da Men’s Life

Quello che mi domando, sempre più spesso, è se sia mai possibile essere un uomo nuovo. Rinnovarsi, insomma, chiudere un capitolo, voltare pagina, sentirsi a tutti gli effetti una persona diversa. E mi chiedo, soprattutto, dove trovare la forza per una rivoluzione di tale portata.

Perché la mia sensazione è che continuare in questo modo non porti, in definitiva, ad un bel niente.

Sono sicuro sia venuto anche a voi quel pensiero impellente che sia arrivato davvero il momento di cambiare. E come potremmo mai cambiare se non iniziando da noi stessi?

Lo so, sembra alquanto banale, anche solo a ripeterlo a voce bassa (mi ci viene persino da ridere).

Ma forse, molto più spesso di quello che crediamo, i concetti semplici sono anche quelli più reali, a portata di mano. Quindi, perché non proviamo a partire da qui?

Guardate, sono esattamente come voi: brancolo nel buio, la soluzione non so dove stia.

Un paio di amici mi hanno raccontato che prima erano diversi, che guardando al passato nemmeno si riconoscono. Ma perché ciò avvenisse hanno dovuto rischiare di perdere tutto. Si sono salvati miracolosamente da un terribile incidente. Uno dei due, addirittura, è ritornato dal mondo dei morti.

Ok, liberi di non crederci. Ma che in molti casi il rendersi conto di essersi salvati per una specie di intervento divino sia più che sufficiente per trasformarsi in un’altra persona, a questo non possiamo non crederci.

Ma per cambiare davvero c’è sempre bisogno di un trauma fortissimo, di un cataclisma interiore? Occorre vedere la morte in faccia, prendendo ad esempio l’avventura del mio amico?

Non è che possiamo augurarci tutti quanti di toccare il fondo del pozzo perché, probabilmente, è l’unico modo per poi apprezzare veramente la vita e viverla con più coscienza.

E poi, questo benedetto cambiamento interno, siamo sicuri che avvenga sempre e sia immancabilmente quello giusto? Perché diciamocela tutta. O qui ci mettiamo tutti quanti di impegno a dare una svolta alle nostre vite, oppure sarà difficile, se non impossibile, salvarci.

Cominciare ad insegnare ai nostri figli un po’ di senso civico e, soprattutto, un po’ di educazione, non sembra la soluzione perfetta, perché ci vorranno molte generazioni prima di vedere qualche risultato (se mai arriveranno). Purtroppo quella di seguire una linea comune sembra essere la maggiore difficoltà incontrata dal genere umano.

Lo vedete anche voi quanto sia difficile decidere unanimemente, quanto le stesse parole cambino di significato pronunciate da bocche diverse, quanto il concetto di libertà sia differente già oltre l’uscio di casa nostra.

Il cambiamento deve iniziare oggi, al massimo stasera prima dell’ora di cena. Domani potrebbe essere già tardi.

Avete visto, no? Quando ci mettiamo in testa di mutare il nostro destino non ci fermiamo di fronte a niente, siamo addirittura in grado di intervenire sul perfetto meccanismo

dell’Universo. Ci siamo messi a deviare la traiettoria degli asteroidi lanciandogli contro i satelliti.

Nell’intromissione da parte dell’uomo nel Disegno Divino riuscite a pensare a qualcosa di più audace dopo la pecora Dolly?

La scienza ha parlato nuovamente. Ai miracoli non ci si crede. Figuriamoci quindi al ritorno del Messia per portarci la salvezza in tempi brevi, la tanto sperata redenzione del mondo.

Insomma, secondo il matematico e teologo John Craig ciò dovrebbe avvenire in un giorno non precisato nel 3150, con tutta calma verso le 10 e un quarto di mattina.

Dai, non abbiamo tutto questo tempo per aspettare.

Se per iniziare a cambiare noi stessi avessimo proprio bisogno di una figura di riferimento, perché non usare qualcuno che esiste già e che le reti sociali hanno certificato essere un uomo dal quale prendere esempio.

Perché non potrebbe essere Keanu Reeves, allora? La sua vita, nonostante la notorietà, ha avuto dei momenti tragici che lo hanno trasformato. Vive con semplicità, è altruista, disponibile con tutti, ama stare in mezzo alla gente, adora gli animali e tutti gli esseri viventi. Si sposta in metropolitana, quindi è anche eco-friendly e col look alla John Wick, coi capelli lunghi e la barba incolta, aiuta anche molto con una certa iconografia spirituale.

E poi sentite qui la parte migliore. Il suo nome, Keanu, significa “brezza di mare”, anche se lui ama spesso tradurlo come “brezza fresca di montagna”.

Insomma, è solo aprire i nostri cuori e fare entrare un po’ di tutta questa frescura.

Che ne dite? Fatemi sapere. Ma presto però, stasera, al massimo domattina prima di colazione. I tempi stringono.

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Solo sette anni

Articolo da Men’s Life

Mi piacerebbe chiederti quello che provi, se sei davvero felice, se la tua vita ti piace, oppure se vorresti fosse tutto diverso. Ma sei ancora piccola, compierai solo sette anni.

Eppure hai già fatto tante cose. Hai viaggiato, fatto sport, sei andata a scuola, con alterni sentimenti. Hai conosciuto il mare, hai vissuto in campagna. Hai accarezzato una mucca, dato da mangiare ai cavalli, hai tenuto stretto tra le braccia un cucciolo di cane che hai deciso di chiamare Fiore, hai giocato coi gatti. hai rincorso le galline e insieme, io e te, ci siamo incantati a guardare le stelle.

Hai già fatto molte scoperte. Che ti piace disegnare, leggere, che ami le patatine fritte, ma che odi le zucchine e le cipolle. Ti diverti decisamente di più sull’altalena che buttandoti giù dallo scivolino, che la sabbia addosso ti infastidisce, ma che se si tratta di nuotare non ti tiri mai indietro.

D’altro canto hai già pianto molto. Hai avuto i primi tragici litigi con la tua migliore amica. Hai dovuto accettare di buon grado moltissimi “no”, hai scoperto cosa significhi starsene lì, da sola, seduta sul letto a pensare, cosa significhi chiedere scusa, cercare di capire cosa sia giusto e cosa, invece, sbagliato.

Hai sofferto quando ti sei resa conto che una persona a cui volevi bene se n’è andata via per sempre, hai sperimentato cosa voglia dire essere esclusi da un gruppo, e ti sei accorta che le tue decisioni non sempre vanno d’accordo con quelle degli altri.

Hai anche passato più di due anni di follia, di distanziamento sociale, di angoscia. Hai visto i grandi accanto a te tremare di paura, essere insicuri, senza che siano riusciti a darti delle risposte precise, del tutto rassicuranti.

Sei stata per tanto tempo lontana dalla tua vita, fatta di scuola, amiche, passeggiate, gelati, spensieratezza.

Per alcuni versi sei dovuta crescere in fretta, ti sei dovuta adattare. Abbiamo cercato di proteggerti il più possibile, ma in qualche caso siamo stati disattenti.

Ti abbiamo lasciata troppo spesso sola di fronte la tv, ti abbiamo chiesto troppo poco se stesse andando tutto bene. Paralizzati dai nostri timori, dalle nostre incertezze, abbiamo alle volte pensato che tu fossi già grande.

Ecco perché mi piacerebbe sapere quali siano i tuoi sentimenti, se la tua vita ti piace, oppure no. Ma sei ancora piccola. Compierai solo sette anni.

Perché io, alle volte, mi sento un papà sciagurato. Ti abbiamo messo al mondo e dovrai già fare i conti coi timori di guerre atomiche, siccità, inondazioni. Dovrai rimboccarti le maniche perché sei donna, e la disparità fra i sessi è un problema ancora lontano dall’essere risolto.

Per non parlare dell’incertezza politica, sociale, economica. E allora io mi domando se sarò abbastanza forte per difenderti, per preservare la tua innocenza, bravo a dissimulare le mie paure e le mie incertezze, finché non sarai grande abbastanza per sapertela cavare anche da sola.

Per adesso hai solo sette anni, anche se cresci in fretta. Ci siamo messi d’accordo che il giorno del tuo compleanno sarà l’ultimo giorno che ti prenderò in collo.

Di abbracci, invece, non ti devi preoccupare, te ne darò sempre, per tutta la vita, ogni volta

che ne sentirai il bisogno.

E tutte le volte che ne avrai voglia, ti racconterò come’eri quando avevi sette anni.

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L’indecisione esistenziale

Articolo da Men’s Life

Che indecisione ragazzi! Che dubbio amletico, che fatica star lì ad ascoltare le opinioni di tutti e alla fine sentirsi sempre in contraddizione.

Lo so che in conclusione quello che conta è ciò che sceglierò io, ci mancherebbe, ma questo tentennare, questo continuo mettersi in discussione per poi arrivare nuovamente ad un niente di fatto, questo altalenarsi di supposte sicurezze che poi si sgretolano inevitabilmente già il giorno dopo, mi sta sfiancando.

Continuo a rimandare la mia decisione, trovando mille scuse, lo ammetto.

Ma questa condizione di codardia – diciamocela tutta – è la società in cui viviamo che ce l’ha inculcata. L’uomo indeciso, che non sa più prendere parte, è figlio dei tempi, che vi credevate?

Cari miei, l’uomo che sceglie con sicurezza e determinazione, perché crede ciecamente in quello che fa, non esiste più. Anche se pensa di essere padrone di se stesso, alla fin fine, non lo è proprio per niente.

E guardate che non si tratta di essere ingenui, cadere come degli stupidi creduloni in qualche teoria complottistica. Che sia piú conveniente un popolo indeciso, senza idee precise, purtroppo è un dato di fatto.

Oramai siamo più propensi a seguire le mode, a stare al mondo come bandierine al vento invece che avere il coraggio di cambiare rotta, oppure di seguire sempre la propria, con caparbietà, credendo fino in fondo alle proprie scelte.

Quando finalmente siamo certi di essere dei veri anticonformisti scopriamo di essere perfettamente uguali a tutti gli hipster del mondo.

Quindi, non è forse più comodo omologarsi, uniformarsi alle tendenze del momento invece che fare le proprie scelte in coscienza, rischiando però le critiche, anche feroci?

Crediamo di star respirando libertà a pieni polmoni, che se abbiamo comprato quella tal macchina, se stiamo indossando quel tipo di pantaloni o se stiamo mangiando quel piatto di pasta a mezzogiorno sia stata una nostra sacrosanta decisione.

In realtà, a ben guardare, sotto sotto, c’è sempre qualcun altro che ha scelto per noi. Perché il nostro mondo è stracolmo di offerte, di mille prodotti che poi si assomigliano tutti, di persone che dietro facce diverse dicono le stesse identiche cose. Se, nella maggior parte delle situazioni, lasciamo che non siano le nostre scelte a guidarci è perché la società moderna è stata programmata per confonderci le idee.

Usciamo di casa la mattina e addirittura non sappiamo più quale sia la strada migliore per andare a lavorare. Rimaniamo in attesa, a motore acceso, finché Google maps non geolocalizzi la nostra posizione e ci dica se svoltare a destra, a sinistra e quale sia il percorso più breve.

Il problema più grave, alla fine, è che la nostra indecisione cronica, sociale, esistenziale, non si manifesta solo di fronte ad uno scaffale di 25 metri di saponi per lavatrice, ma anche nelle decisioni più semplici.

Scegliere tra bianco o nero o tra mare e montagna finisce per diventare un dramma.

E io, per l’appunto, non so cosa scegliere, se tagliarmi la barba o farla crescere. Mi guardo

allo specchio e non so più chi sono, chi ero e chi vorrei essere.

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Il senso della vera amicizia

Articolo da Men’s Life

Potrebbe sembrare assurdo, per certi versi addirittura un’esagerazione, ma vi assicuro che mi ero dimenticato quanto possa essere piacevole passare alcune ore con un amico.

Ma non uno qualsiasi. Avete presente l’amico vero, quello su cui poter contare ciecamente se ce ne fosse bisogno, che però non vedete da un sacco di tempo perché – mannaggia la miseria – la vita poi fa percorrere strade diverse, lontane e non è colpa di nessuno se i telefoni tacciono per mesi, persino anni, e al massimo ci si scambiano gli auguri di Natale e Capodanno su WhatsApp con l’emoji del brindisi e del cono coi coriandoli e le stelle filanti?

Ecco, proprio quell’amico lì, che alcuni anni fa, così come hanno fatto tanti altri, è scappato per cercare un posto migliore dove lavorare, che si è rimboccato le maniche, che ha sofferto, che ha avuto il coraggio di mettere tutto in discussione, di rimettersi in gioco, di fare sacrifici e di cominciare daccapo lontano da casa.

Quell’amico che, anche se è passato davvero tanto tempo, è come se fossero passati solo pochi giorni. Che anche se è cambiato tanto, in fin dei conti non è cambiato per niente.

La voce che riconosceresti tra mille, i gesti quelli di sempre, le opinioni sulla vita e sulle persone che continuano ad essere le stesse e pienamente condivisibili.

Finalmente, seduti ad un tavolino di un bar bevendo un caffè, è stato bellissimo sentirlo parlare, raccontare dei suoi guai, delle sue avventure, cercare di dare un volto alle infinite persone che sono diventate il centro del suo mondo così lontano dal mio, sconosciuto.

E allo stesso modo fare il punto sulla mia vita, esporgli senza timore le mie preoccupazioni e i miei dubbi.

Ma ciò che mi ha fatto riflettere, dopo esserci salutati, a mente fredda e ripensando al nostro incontro, è che in nessun momento ci è venuto in mente di perdersi a rivangare il passato, a ricordarci con nostalgia della nostra giovinezza, o peggio, a recriminare dei nostri passi falsi.

Al contrario, abbiamo parlato di futuro, di progetti, di nuovi percorsi da fare, chissà, magari insieme.

Allora ho pensato a quale sia il senso della vera amicizia. Anche se non è coltivata ogni giorno, anche se viene messa in pausa per lunghi periodi, quando riaffiora, ed è sincera, ha la capacità di sospingerti in un nuovo slancio, ha la forza incredibile per strapparti dalle sabbie mobili in cui periodicamente rimaniamo impantanati.

La vera amicizia non è quella che ti aiuta a ricordare il passato, ma al contrario, ti spinge a credere fermamente nel futuro con più coraggio, a riacciuffare i tuoi sogni che come un palloncino sfuggito dalla mano il vento se li sta portando via.

Per un attimo ho sognato di potervi avere tutti accanto a me, voi amici veri che la vita mi ha concesso la fortuna di incontrare.

Immaginate la forza d’urto che potremmo generare, che poderoso slancio vitale scaturirebbe dal nostro nuovo incontro.

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Lo scaffale della malinconia

Articolo da Men’s Life

Non so se capita anche a voi, ma le mie vacanze finiscono sempre tra gli scaffali di un supermercato.

O meglio, quella latente malinconia che mi porto dietro fin dal viaggio di ritorno, in genere si concretizza definitivamente nel supermercato dietro casa, prendendo dallo scaffale un flacone di shampoo, lo stesso che di solito abbandono in hotel.

“È quasi finito, che lo metto a fare in valigia? Una volta a casa la ricompro”.

Quel semplice gesto è lo spartiacque tra il prima e il dopo, è il “click” che dà l’avvio a nuovi mesi di routine, di vecchie abitudini, di strade già percorse milioni di volte, di facce note alle quali sorridere nonostante ti ricordino drammaticamente che “Eccoci tutti qua di nuovo, si ricomincia”.

Se per caso, di questi tempi, doveste incontrarmi imbambolato nel reparto Cura dei capelli con uno shampoo in mano, oppure in quello dell’Igiene orale fissando una scatola di dentifricio, non vi allarmate, anzi non fate proprio caso a me. Piuttosto cercate di compatirmi e tirate dritto verso i surgelati.

Prima di mettere i prodotti nel carrello, lasciate che rimanga ancora un po’ a coccolarmi coi miei ricordi di spensierata felicità, a riacciuffare in rapida successione le immagini di tutti i luoghi visitati, i volti delle nuove persone conosciute, le emozioni per le esperienze vissute, i sogni fatti ad occhi aperti e apparsi così incredibilmente raggiungibili.

Non è che invitarmi a non farla troppo tragica, che di viaggi ce ne saranno mille altri, si riesca a consolarmi. Certamente non in questo momento.

Anche perché da alcuni anni viaggiare, per la nostra famiglia, è stato un vero e proprio evento. Chissà quando ci ricapiterà, insomma.

E che quest’anno la mia sofferenza sia ancora maggiore lo si poteva capire bene dando un’occhiata a quello che ho infilato nel carrello e che la cassiera poi ha passato sul lettore del codice a barre, meccanicamente.

Tre pacchi di merendine, una crema di cioccolato spalmabile, due pacchi di biscotti, una scatola di gelati assortiti, due sacchetti di patatine, sei lattine di birra, due bottiglie di vino, uno bianco uno rosso e il flacone di shampoo.

Al rientro dalle vacanze occorrerebbe riempire nuovamente il frigorifero e il congelatore con cibi buoni, sani, rifornire la dispensa di ciò che è veramente necessario e, soprattutto, tornare a pensare al pranzo e alla cena per i bambini.

Per me, invece, la prima spesa al rientro dalle vacanze è sempre un fallimento, un inutile spreco di denaro.

È come voler rimandare le mie responsabilità, un capriccio infantile, una ripicca, una puerile presa di posizione. L’ultimo rigurgito di ribellione.

Dopo aver infilato i sacchetti nel portabagagli, in mezzo al parcheggio stracolmo, mi sono appoggiato alla macchina e ho mangiato svogliatamente una merendina.

Di fronte a me il supermercato, la metafora del ritorno alla realtà e il simbolo della nostra schiavitù.

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Alla ricerca del vichingo

Articolo da Men’s Life

La mia ottusa ricerca dell’uomo vero mi ha spinto fino in Scandinavia, precisamente in Norvegia.

Sceso con un certo timore all’aeroporto di Oslo ho immaginato di trovare orde di vichinghi agguerriti, pronti a respingere lo straniero macilento, fiaccato dal mal di testa da cervicale e dalle circa tre ore di volo low cost.

Invece ad accogliermi è stato un bel sole pomeridiano, una temperatura perfetta di 24 gradi centigradi e un’insolita calma e fluidità che mi hanno aiutato immediatamente a far rilassare i muscoli lombari.

La prima cosa che si nota è quanto il drastico passaggio all’elettrico abbia influito positivamente nell’abbattimento dell’inquinamento acustico delle città.

Nonostante il Paese sia uno dei maggiori esportatori di petrolio e gas d’Europa, si calcola che già nel 2020 la Norvegia avesse raggiunto la soglia del 70% delle vendita delle auto elettriche proiettandosi di diritto al vertice delle nazioni più green del mondo.

Anche se l’opinione pubblica è nel pieno di un aspro dibattito tra continuare l’esplorazione petrolifera o passare definitivamente alle rinnovabili, è innegabile che il “popolo vichingo” ci tenga particolarmente al rispetto della natura. Lo si vede ovunque, dalle infinite distese di boschi, al placido e azzurro mare dei fiordi, ma soprattutto dall’ordine e dalla pulizia delle strade così come dalla metodica e capillare raccolta differenziata dei rifiuti.

Il vero uomo non può che essere ecologista e rispettoso del mondo in cui vive. E che nella cultura Norvegese il retaggio della vita vichinga a contatto con la natura e in simbiosi con essa sia ancora molto presente nella società moderna, è molto evidente.

Ai bambini viene insegnato fin dai primissimi anni a sapersela cavare, a dover affrontare i pericoli e le avversità della natura. Anche nei mesi invernali, con temperature rigide e neve alta, le escursioni delle scolaresche sono molto comuni e le mamme si attrezzano con grandi sacchi della spazzatura nei quali infilare i propri figli infangati e bagnati prima di caricarli in macchina e riportarli a casa.

C’è un detto in Norvegia che recita più o meno così: “Non esiste il cattivo tempo per uscire di casa, esistono i vestiti sbagliati”.

Ed è più che normale. Nei lunghi inverni del nord, quando le temperature sono costantemente sotto zero e il sole spunta solo per poche ore al giorno, se tutto si dovesse fermare sarebbe la catastrofe. Nei mesi più rigidi, quando i fiordi gelano, chi vive sulle coste è svegliato dal rumore del ghiaccio rotto dalla prua delle navi.

Qui l’uomo vero, e la donna vera, hanno la scorza dura, non si spaventano di niente.

Anche se le famiglie norvegesi sono estremamente riservate e raramente aprono le porte delle loro case per invitarti a bere un caffè e fare due chiacchiere, la Norvegia è una terra di conquista culturale.

Il cibo, ad esempio, ha subito l’influenza delle numerose comunità straniere, prevalentemente musulmane, ma anche est europee e latino americane. Il venerdì è davvero difficile sfuggire da quella che è ormai diventata una tradizione, ingozzarsi di tacos, e nel fine settimana, quasi sempre, dalle cucine arriva l’odore del kebab.

La Norvegia è quella che si può considerare una vera Democrazia. Non esiste un vero e proprio disequilibrio sociale e, nonostante qualche rigurgito tradizionalista, la società è votata all’accoglienza e alla tolleranza.

Eppure, quello che poi alla fine non ho davvero incontrato è il vero uomo vichingo, quello

muscoloso, dal volto fiero, vestito di pelli di renna e con l’elmetto con le corna.

L’ho cercato nella commistione di antico e moderno dell’architettura di Oslo, sul tetto in marmo di Carrara della Opera House, fra le sculture giganti del Vigelandsparken, fra le strade del quartiere Hammersborg.

L’impressione che ho avuto è che sia fuggito alla vista dei negozi di souvenir e che si stia nascondendo, forse proprio tra quei boschi sconfinati o in qualche fiordo sperduto dell’estremo nord. Probabilmente aspettando tempi migliori, continuando a forgiare il fisico e a temprare la mente sotto la protezione del dio Thor, personificazione del fulmine e protettore dell’Umanitá, per una guerra ancora più aspra di quella che stiamo combattendo oggi.

Noi comuni mortali siamo ancora sopraffatti dagli eventi, come l’uomo de L’urlo di Edvard Munch, inchiodati alle nostre vite in un sordo grido di disperazione.

Eppure il sorgere del sole sul fiordo, al quale ho assistito anche io a bocca aperta, è stato di uno splendore unico, forse irripetibile.

Avrei voluto fotografarlo, registrarlo sul cellulare per poi mostrarlo a tutti, condividerlo.

Fortunatamente ero rimasto senza batteria e quindi rimarrà per sempre solo un momento mio, registrato negli occhi della mia memoria.

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L’Energia Universale

Articolo da Men’s Life

Già. Ridendo e scherzando anche le ferie di quest’anno sono finite.

Che poi, per me, la vera vacanza non è mai stata viaggiare, conoscere posti lontani, fare esperienze incredibili e riempire i ricordi di istantanee indimenticabili.

Mi è sempre bastato trovare un angolo di mondo, uno spicchio di cielo, un posto dove sedermi, o sdraiarmi, e lasciar scorrere il tempo senza fare un bel niente.

Quel posto è il mio ideale punto d’arrivo, la meta del mio viaggio. È così che ricarico le batterie, è lì che rigenero lo spirito, che torno a prendere contatto con me stesso e riacquisto le forze per ricominciare ad affrontare le difficoltà della vita.

Il più delle volte sento di riuscire a conoscere profondamente un luogo, a riconoscerlo come spazio fisico, solo vivendolo in modo inattivo, catturandone semplicemente l’energia.

Giusto per intenderci. Se sono in una città sconosciuta, invece di girare come un pazzo visitando musei e scattando foto ad ogni scorcio pittoresco, preferisco di gran lunga sedermi in una piazza, sui gradini di una fontana, e starmene lì per un buon tempo osservando la gente passare e godermi il lento cambiare della fisionomia delle cose.

Seppur semplice e privo di disciplina, l’ho sempre pensato come ad un atteggiamento spirituale rispetto alla mia collocazione all’interno del flusso dell’Energia Universale.

In sostanza il mio viaggio si concentra in una fermata, o meglio, in una lunga sosta, che non deve per forza essere suggestiva, amena, incantevole. Deve semplicemente essere perfetta per il mio riposo, per la ricostituzione di mente e corpo.

Quando la trovo, quando questo spazio mi accoglie e mi offre il suo rifugio, tutto il resto perde di interesse, perché è lì che istintivamente voglio tornare per il resto della vacanza.

Che io ricordi questo spazio è già stato un’amaca stesa fra due pini in un campeggio, il tavolino di una sala da tè nei pressi di un laghetto, la veranda di una casa in campagna, la cucina di una baita in montagna, o il letto di una stanza d’albergo osservando in lontananza la città in movimento.

Se in una vacanza non riesco a trovare questo luogo, è come se avessi girato a vuoto e allora me ne torno a casa con quella spiacevole sensazione di aver mancato il flusso dell’Energia Universale.

Questo è stato il mio timore negli ultimi giorni passati al mare. Tra musica alta, bagnanti rumorosi e bambini che credono che tirare la sabbia nei capelli degli altri sia la cosa più divertente del mondo, non stavo riuscendo in nessun modo a ritrovare il contatto con me stesso.

Finché non ho avuto come un richiamo, il flusso per l’appunto.

Ho afferrato il ciambellone gonfiabile di mia figlia e ho raggiunto il mare. Mi sono inoltrato fino a trovare una zona d’acqua vuota, spaziosa abbastanza perché diventasse il punto di arrivo del mio viaggio.

Con un saltellino leggiadro sono scivolato di pancia sopra il ciambellone e poi ho lasciato che il dondolio del mare facesse il resto.

Per un bel po’ ho ricaricato le batterie e rigenerato il mio spirito finché ho sentito chiaramente tornare anche le forze per affrontare le difficoltà della vita.

Ecco, tutto questo per raccontarvi in maniera un po’ diversa come, quando e perché mi sono ustionato la schiena.

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L’uomo in viaggio

Articolo da Men’s Life

Del mio viaggio io amo le pause, sedermi negli spazi di attesa degli aeroporti o al tavolino di un bar nei pressi di un tabellone delle partenze alla stazione.

Sono un voyeur con la valigia. Osservare il viaggio degli altri è il mio vero viaggio. L’unico modo che ho scovato per non misurare le distanze solamente in chilometri.

Si parte. Chissà per dove, chissà per quanto tempo. Il viaggio non è mai semplicemente fisico, di spostamento. Non vuol dire esclusivamente dislocare il proprio corpo, costringerlo ad andare.

Nel viaggio ciò che avviene è soprattutto un cambiamento interno, nell’animo, una mutazione che può essere piccola o grande, fragile o duratura, sconvolgente o di ordinaria amministrazione.

Ma alla fine, quando disfo le valigie, non sono più la stessa persona, e forse quel particolare viaggio, che potrebbe sembrare finito, è solamente al suo inizio.

E infatti io credo che tutti gli uomini in viaggio siano bellissimi, non so se vi è mai capitato di osservarlo.

Li ammiro. Hanno lo sguardo teso, concentrato sui tabelloni degli arrivi e delle partenze. Sembrano che sappiano esattamente il da farsi, che abbiano tutto sotto controllo, anche se non hanno mai viaggiato in vita loro.

Gli abiti che indossano sono quelli da viaggio, non sono quelli di tutti i giorni. E anche se lo sono li indossano con un fare differente, da viaggiatori appunto.

Oggigiorno sono tecnologici, si destreggiano con gli applicativi, e soprattutto non hanno più bisogno di chiedere informazioni a nessuno.

Hanno pianificato tutto fin nei minimi dettagli e anche se sono lontani da casa si sentono comunque in completa sintonia col mondo perché perfettamente geolocalizzati.

Hanno fatto i biglietti on line e hanno scaricato i documenti di viaggio e le carte d’imbarco sui loro cellulari.

Se invece sono dei tipi all’antica – che devono avere tutto a portata di mano – le scartoffie, i fogli e i bigliettini che certificano il loro viaggio sono tutti ordinati in cartelline colorate con gli elastici o infilati nel portadocumenti appeso al collo insieme al passaporto.

Il resto della famiglia si lascia guidare, attende le sue direttive, il suo indicare col dito la direzione da seguire.

L’uomo che viaggia ostenta sicurezza, anche se si è perso. Tanto indossa scarpe comode e ha la bottiglia termica nella tasca laterale dello zaino. Abbandona la sua eleganza solo se sta per perdere la coincidenza. Ma non c’è da ridere osservando il suo dramma. Della sua corsa scoordinata con gli occhi strabuzzati trascinandosi dietro valigie e ragazzini si prova più che altro compassione.

Anche se è deboluccio o sovrappeso, claudicante, vecchio, l’uomo che viaggia riesce a tirar fuori il meglio di sé, le energie necessarie per stare a schiena dritta, per affrontare le file, il caldo, i bagni luridi. Finché è in viaggio non si abbatte, neanche di fronte alle difficoltà, ai cambi di programma, alla cancellazione di un volo.

In viaggio torna ad essere un vero uomo, con le sue ottusità, i suoi limiti, le sue paure certo,

ma pronto a lottare, a urlare, a farsi sentire pur di raggiungere il suo scopo, e cioè continuare a viaggiare.

Quando infine è seduto al suo posto e i suoi bagagli sono ben sistemati sopra la sua testa, allora sì che riesce a rilassarsi davvero, diventa ilare, affabile, a volte spocchioso e, finalmente, la smette di sudare.

Ecco, è proprio in questo momento che il viaggio inizia a finire.

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Il fallito appuntamento

Articolo da Men’s Life

Ho fallito. Mai come in questo periodo gli ostacoli che la vita ci mette di fronte ci rendono deboli, inclini alle sconfitte.

Per un gran numero di uomini ammettere il proprio fallimento è un dramma, nonostante il riconoscimento della propria debolezza sia di per sé un atto di coraggio.

Il rispetto o la compassione che suscitiamo negli altri, come la celebrazione del ricordo che si riserva ad un fiero guerriero caduto con onore in battaglia, in molte occasioni non servono a niente e logorano il fegato, azzannano l’orgoglio e lo fanno a brandelli.

In questi casi quello contro cui si inizia a combattere è un sentimento di vergogna, di frustrazione: “Non ci sono riuscito, seppur provandoci, e adesso è l’ora di soccombere, di fare i conti con me stesso”.

Potrebbe essere – anzi è molto probabile che sia – una lotta già persa. In fondo la vergogna è un lento logoramento, una inesorabile sottrazione che porta alla rinuncia totale, all’abbandono, fino a non avere più le forze per il riscatto.

Chi pensa di aver fallito cercherà di convincere se stesso nella possibilità di un’altra occasione, ma dentro di sé sa già che solo un miracolo potrebbe rovesciare la situazione.

Eppure di occasioni per farcela, per vincere, per dimostrare di non essere uno dei tanti non sono mancate.

Il tormento, come un pungolo a ricordare con insistenza la propria fiacchezza, non è altro che il rimorso per una forza di volontà assente, o che non si è riusciti a stimolare a sufficienza.

Certo si potrà piangere, disperarsi, ma è meglio farlo in privato. Di fronte agli altri è bene ostentare una fiera consapevolezza del proprio essere e del proprio apparire.

Non servirà guardarsi allo specchio e – scusate il gioco di parole – immaginare la propria immagine, o peggio vedersi in un passato glorioso che ormai ha fatto il suo tempo.

Il fallimento ci inchioda al presente e ci sbatte in faccia la realtà.

Anche quest’anno abbiamo fallito miseramente l’appuntamento con la prova costume.

Che fine hanno fatto i buoni propositi di mangiare sano, a orari stabiliti, bilanciando proteine e carboidrati? Che fine ha fatto la dieta stilata dall’amica dietologa, l’idratazione, l’abbandono della vita sedentaria? E gli addominali? Non era per fare due serie da venti tutti i giorni, appena alzati dal letto?

Anch’io qualche tempo fa avevo dichiarato guerra alla panza, ricordate? Ebbene sì, ho fallito. È ancora qui, strabordante oltre la cintura.

Comunque tenti di sistemarlo, a qualsiasi altezza io provi a metterlo, il pantaloncino da mare non copre l’abbondanza addominale. Non c’è modo.

Che vi devo dire. Speriamo che torni presto l’inverno, che il freddo congeli quei buoni propositi che il caldo ha miseramente liquefatto.

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Lucciole su Marte

Articolo da Men’s Life

Guardate, è meglio se in questo periodo mi lasciate stare. Sono facilmente irritabile e va a finire che vi risponda male per qualsiasi cosa.

Lo so, è antipatico iniziare un discorso in questo modo, ma che ci volete fare? Mi si può anche capire, quando le cose non vanno per il verso giusto è difficile essere affabili.

E poi, lo vedete anche da voi, a parte le mie beghe personali, ce n’è sempre una nuova. Non si può più stare tranquilli un attimo che dobbiamo già fare i conti con nuovi drammi e nuove preoccupazioni.

Anche in estate.

Com’era bello, invece, quando si andava tutti quanti in vacanza – anche gli uomini cattivi – e per combattere di nuovo contro le tribolazioni della vita ci si rivedeva solo dopo il 15 di settembre.

Si andava al mare a fare il bagno, a fare le piste sulla sabbia e a giocare a palline con le facce dei ciclisti. Si leggevano libri in giardino, si coglievano i fichi, si faceva la marmellata di more e poi, la sera, si catturavano le lucciole per metterle sotto il bicchiere.

Che fosse caldo torrido o caldo normale, si aprivano tutte le porte e le finestre e in genere quel bel riscontro riusciva anche a rinfrescarci un poco le idee. Al massimo sbatteva forte una porta e qualcuno sussultava per la paura. Altro che aria condizionata.

Eccolo là, il solito nostalgico, il solito vecchio rompiscatole con i piedi nel presente e la testa in un passato che, forse, nemmeno era così bello come ci sembra di ricordare.

Magari avete ragione voi, però adesso – e non ditemi che sia la stessa cosa – il mio desiderio più grande non è quello di andare in vacanza, ma di mollare ogni cosa e di mandare tutti quanti a quel paese.

Insomma, altro che “boomer”, altro che Generazione X. Sono solo un uomo che con questi ritmi, con queste melodie, se così si può dire, non riesce proprio a ballare.

Hai voglia a dire di spegnere la televisione, di non leggere più i giornali che alla fine, le persone, coi guai, con la fame e con le guerre c’hanno sempre avuto a che fare.

Speditemi piuttosto sulla luna, su Marte, fatemi passeggiare tra le stelle insieme ad Astrosamantha, che io da vicino questo mondaccio non riesco più a guardarlo.

Sono più come quel tipo nella canzone di Finardi, avete presente, che se ne stava su un abbaino “per avere il cielo sempre più vicino”.

Perché a lui non importava niente/Di quello che faceva la gente/Solo una cosa per lui era importante. [..] Extraterrestre portami via/Voglio una stella che sia tutta mia/Extraterrestre vienimi a cercare/Voglio un pianeta su cui ricominciare.

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L’abominevole uomo

Articolo da Men’s Life

Perché disprezzarmi così tanto? Spiegatemi, che cosa avrei fatto per meritare il vostro abominio? Per il solo fatto di nascondermi sulle montagne? Oppure perché da sempre mi preoccupo di far perdere le mie tracce tra la folta coltre di neve? Cosa vi infastidisce, che non sia come voi, che i miei lunghi peli mi facciano più che altro assomigliare ad un orso?

Il mio desiderio è solo quello di starmene solitario e tranquillo tra le rocce innevate di casa mia, vivere la mia vita in santa pace e morire, poi, allo stesso modo come ho vissuto, osservando il mondo da quassù e immaginarlo immutato e immutabile.

Non pretendo che mi capiate, e anche se mi sono fatto vedere qualche volta, se ho tradito la mia riservatezza, vi assicuro che è stato per sbaglio, per una mia distrazione.

In un paio di occasioni abbiamo davvero rischiato di incontrarci faccia a faccia. Ho pensato spesso a cosa sarebbe successo.

Avreste voluto sapere tutto di me, vedere dove vivo, come vivo. Chissà, magari avreste cercato di cambiarmi secondo i vostri costumi e le vostre abitudini. In realtà ho avuto paura che avreste cercato addiruttura di uccidermi per poi trascinarmi a valle per far vedere agli atri come i mostri, da morti, si assomiglino tutti quanti.

In fondo mi avete sempre considerato un essere spregevole, guardato con timore, avete alimentato leggende cariche di sentimenti di avversione mentre io sono semplicemente uno yeh-teh, un uomo delle rocce.

Le montagne sono il mio tetto, i ghiacciai il pavimento e la neve soffice è la mia coperta.

Non c’è nessuno che conosca questi luoghi meglio di me. Conosco tutte le pareti, le creste, ho percorso i canaloni e i valichi in lungo e in largo, ammirato le più belle e sconosciute cascate di ghiaccio, ho raggiunto i picchi più alti e sono rimasto lì ad osservare il sole nascere e tramontare come se fosse uno spettacolo messo in scena solo per me.

Ed ecco che, a malincuore, quest’uomo che voi considerate abominevole, vi manda questo disperato messaggio. Siate liberi di crederci o meno.

Le montagne sono malate. I segnali del loro malessere, della loro sofferenza sono tanti, io li vedo ogni giorno.

Per molto tempo ho dominato le asperità di queste pietre, affrontato con sicurezza le avversità del tempo ma adesso, per la prima volta, al loro cospetto, mi sento impotente e fragile.

Non so cosa stia succedendo ed è per questo che vi chiedo aiuto. Vedere l’immutabilità del mio mondo sciogliersi lentamente mi riempie di dolore e preoccupazione.

Se tutto dovesse scomparire io scomparirei nello stesso modo, inesorabilmente.

E badate bene, non vi imploro per la mia di salvezza, ma per quella delle montagne, per la vita che custodiscono da secoli, per la loro presenza silenziosa ma necessaria. Aiuto.

Continuerò a lasciare le mie impronte sulla neve perché possiate seguire le mie tracce e se un giorno ci dovessimo incontrare vedrete che non sono poi così abominevole.

Alle volte, non lo nego, ho pensato che lo foste voi.

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Stato di allarme imminente

Articolo da Men’s Life

Niente allarmismi. Così continuo a ripetermi senza troppa convinzione ormai da un po’ di tempo. E quella cantilena per cercare di convincermi a mantenere la calma suona ormai così ridicola e sarcastica.

Troppe ne stanno accadendo e troppe ne devo ingoiare per dire che siano solo coincidenze o pura casualità.

Non ci posso fare niente, quindi, se sto sentendo arrivare veloce come un treno quell’impellente bisogno di entrare in stato di allarme. Luce rossa accesa.

Ho già cominciato a comportarmi in maniera irrazionale, non riesco più a contenere la mia agitazione, non sopporto più sentire la mia fronte e la schiena bagnarsi improvvisamente di quel sudorino freddo che non ha niente a che vedere con la calura di questa estate da forno.

Sono a tanto così da iniziare ad urlare istericamente, ve lo dico. Sto quasi per abbandonare la mia compostezza e iniziare a frignare come un ragazzino che ha perso la mamma al supermercato.

Ma per favore non ditemi che sono diventato una femminuccia. Sarebbe peccare di superficialità e rifiutarsi di riconoscere quanto sia difficile per me questo momento.

Sono solo un uomo in procinto di vacillare – ci vuole piuttosto un po’ di comprensione – perché questo potrebbe essere peggio di qualsiasi catastrofe si possa immaginare.

Non mi vergogno ad ammetterlo, d’altronde sono sicuro di essere in buona compagnia. È una questione di carattere, di indole, di sentimenti.

Occorre dire che ci sono dei precisi momenti in cui anche noi uomini siamo particolarmente vulnerabili, ne converrete anche voi.

Possiamo dirlo apertamente, amici miei. Siamo bravissimi a mostrare i muscoli, a gonfiare il petto, ad indossare lo sguardo severo quando occorre, ma poi in solitudine ci stringiamo la testa fra le mani e piangiamo domandandoci dov’è che abbiamo sbagliato.

In fondo, senza sentirsi per questo troppo fragili, fa bene sfogarsi un po’, acquietare in un singhiozzo dietro l’altro le angosce della vita, i dubbi di coscienza, le paure accumulate.

Il grosso problema è che se prima, dopo una bella soffiata di naso, stretti i pugni e i denti, ero pronto a ripartire, a tornare in prima linea indossando nuovamente i panni dell’uomo di famiglia, adesso, in tempi molto brevi, le cose si sono fatte complicate ed io mi sono lasciato sopraffare.

Perché ultimamente non riesco proprio a trovare il modo di raddrizzare la faccenda.

A quasi sette anni, ormai, mia figlia sa perfettamente come mettermi i piedi in testa, questa è la verità.

Per quanto mi riguarda, invece, quello che le passa per la mente per me resta un mistero. Ho come l’impressione che i nostri due mondi si stiano già allontanando.

Mettici poi che la pubertà è ormai dietro l’angolo e che l’adolescenza sta già per arrivare, al solo pensiero di scoprirla improvvisamente donna mi tremano le gambe.

Sapete che vi dico, credo che mi verrà presto uno di quegli attacchi di panico durante il quale non riuscirò a respirare e mi sembrerà di morire.

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La vita osservata in solitudine

Articolo da Men’s Life

Cos’è che ci cambia? Le sofferenze? Le scelte sbagliate? Oppure, come afferma qualcuno, in fondo rimaniamo sempre gli stessi, non cambiamo mai.

L’altro giorno una persona che non vedevo letteralmente da più di un secolo mi ha detto: “Mamma mia, fatti guardare. Ma come fai? Non sei cambiato per niente!”.

Nonostante i punti su cui dissentire siano parecchi, ho accettato il complimento sorridendo, a dir la verità un po’ in imbarazzo, anche perché obiettivamente non avrei potuto dire la stessa cosa di lui.

Se non mi avesse fermato e aiutato a fare uno sforzo di memoria, avrei tirato dritto per la mia strada e quel vecchio amico sarebbe stato nient’altro che uno dei centinaia di estranei che incrociamo ogni giorno per strada quasi ignorandone la presenza.

Ho maledetto questa vita che non ci lascia tempo, che ci costringe a ripartire con più fretta ogni qualvolta ci capiti l’occasione di fermarci.

Perché avrei voluto approfittarne e invitare quel mio vecchio amico a sederci un po’, a trovare un posto dove berci un caffè e fare due chiacchiere senza preoccuparci dei nostri impegni, degli orari stretti, dei minuti contati.

Non tanto per ricordare i bei tempi andati, ma per parlare di noi, di quello che siamo, o di quello che siamo diventati veramente.

Gli avrei fatto notare che seppur non sia cambiato così tanto nell’aspetto fisico, nell’animo e nel carattere potrei essere un’altra persona. Che se fossero queste cose a caratterizzare la mia apparenza, lui per primo, forse, avrebbe tirato dritto senza nemmeno accorgersi di chi io fossi.

La verità è che io non lo so più se sono la stessa persona di sempre, lo stesso uomo anche solo di un paio di anni fa.

Ma soprattutto, se accorgendomi di essere cambiato, non sono sicuro se sarei disposto a sforzarmi di tornare ad essere quello che ero.

Voglio dire, sembra proprio che il cambiamento di ognuno di noi sia una sorta di adattamento alle dinamiche della vita, alle difficoltà che ci si parano davanti.

Un cambiamento del nostro essere che viaggia di pari passo col mutamento delle nostre aspettative, dei progetti, delle nostre ambizioni.

In sostanza una necessità, molto spesso subita invece che voluta.

Pensiamo a come sia cambiato il nostro vivere quotidiano in base alle continue emergenze a cui dobbiamo far fronte e a come queste emergenze si siano fatte molto più presenti e tangibili nelle nostre vite, dallo scoppio della pandemia ad oggi.

Come biasimare un cambiamento, tanto più quando è forzato e drammatico, anche dei nostri caratteri, delle nostre sensibilità?

E stranamente, se c’è una cosa che è cambiata in me è questa improvvisa repulsione per la solitudine, che da sempre, al contrario, ero andato ricercando come fosse un bene prezioso.

Era proprio nella solitudine che ritrovavo quell’occasione, spesso rara, di fermarmi, di lasciare che la vita scorresse veloce altrove mentre io mi limitavo ad osservarla e così a cercare di comprenderla.

Adesso non mi basta più. Cercare di comprendere la vita in solitudine mi appare il modo più rapido per dimenticarsi di come sia avvenuto il cambiamento dentro me stesso. E certamente il modo più complicato per capire se valga la pena cercare di tornare ad essere quello che ero.

Quello che adesso vorrei con tutto me stesso sarebbe proprio poter perdere il mio miglior tempo con quel vecchio amico ritrovato per caso e scoprire con gioia che, seppur il suo corpo sia cambiato così tanto da rendermelo irriconoscibile, il suo animo sia rimasto quello di sempre.

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Il vero uomo

Articolo da Men’s Life

Vi siete mai chiesti cosa fa essere un uomo un vero uomo? Non ho detto un uomo perfetto. In questo caso basterebbe prendere tutte le migliori qualità e i pregi più nobili che ci vengono in mente e infilare tutto questo nettare in un corpo forte e bello, con gli occhi profondi e lo sguardo fiero.

Ma siccome la perfezione non esiste e mi guardo bene anche solo dal desiderarla, in genere mi limito sempre alla ricerca di quell’unica e imprescindibile caratteristica che fa di un uomo un vero uomo. Se mai esista.

Dovrei essere coraggioso, forte, una specie di eroe? O piuttosto essere sempre sincero, altruista, pronto ad aiutare il prossimo in qualsiasi occasione? Oppure sarebbe sufficiente essere un buon padre di famiglia, un lavoratore instancabile, un uomo indipendente ma sempre presente.

E perché no, quello che sa prendere le decisioni migliori nei momenti giusti.

E che ne dite se mi trasformassi in un leader, un capo. Non è forse lui il vero uomo, quello che prende in mano le redini della situazione ed è capace di motivare tutti gli altri verso un traguardo comune?

Questione di punti di vista, direte voi. L’uomo è uno solo, ma il vero uomo potrebbe risiedere in chiunque.

Perché esistono uomini di tutti i tipi dai quali prendere ispirazione, uomini che si oppongono in qualsiasi modo ai soprusi dei poteri forti, altri che decidono di morire per il bene della società, che sacrificano la loro libertà per un’idea.

Ci sono gli uomini irreprensibili, ligi alle regole, moralisti, che hanno una fede incrollabile, gli uomini tutti d’un pezzo.

C’è l’uomo che non deve chiedere mai, l’uomo virile. Quello con le mani forti, che “a ‘dda puzzà”, che ama la propria donna con vigore.

Dall’altra parte ci sono gli uomini dolci e delicati, educati, con mani fini, che conoscono il mondo e sanno come vanno le cose.

Ci sono uomini che non si rassegnano, che sono anticonformisti, che hanno trovato se stessi nella solitudine, che hanno raggiunto la felicità sacrificando ogni cosa.

Uomini che costruiscono da soli la propria casa, che coltivano e producono col sudore il cibo che mettono in tavola.

Sono gli uomini con le mani callose, tagliate dal freddo, sporche di fatica. I loro occhi sono davvero lo specchio dell’anima e le loro idee e i loro pensieri sono semplici così come i piaceri a cui anelano.

Come non affermare che siano loro i veri uomini.

Ma ci sono anche quelli che “fottono il sistema”, che fregano tutti quanti, i furbetti, quelli che qualsiasi cosa accada cadono sempre in piedi. Non sono forse loro i veri uomini della società moderna? I reali conquistatori di questo mondaccio alla deriva?

Forse il vero uomo è figlio dei tempi, si modifica in base alle esigenze, si modella alle asperità del terreno sul quale cammina.

O magari è vissuto in un’altra epoca, ossia potremmo ammettere una volta per tutte che il vero uomo non esista più.

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L’uomo più triste del mondo

Articolo da Men’s Life

Mi ricordo perfettamente il giorno in cui ho conosciuto l’uomo più triste del mondo. È stato a suo modo un incontro mesto, senza grazia, ai tavolini di un bar di second’ordine, in una mattinata grigia, che prometteva pioggia.

Ed è incredibile, perché prima che arrivasse al nostro appuntamento, il sole splendeva alto nel cielo e avevo scelto per l’appunto uno dei bar più accoglienti e frequentati della città sicuro che questo gli avrebbe risollevato un po’ l’animo.

Non avevo resistito e mentre aspettavo avevo già fatto fuori uno dei cornetti al cioccolato più buoni che avessi mai mangiato accompagnato da un cappuccino cremoso, denso, che ancora ne sento il gusto in bocca.

Ricordo perfettamente che buttando giù un sorso pensai che persino l’uomo più disgraziato del mondo si sarebbe sentito un pascià sperimentando le delizie di quel bar.

Perché in fondo cosa c’è di più bello se non trovare la felicità nelle piccole cose quotidiane e assaporarne la bellezza e la perfezione per quello che sono, senza pretendere che siano qualcos’altro.

Ma quando lui è arrivato e si è seduto di fronte a me, su di noi si è addensata improvvisamente una penombra indefinita carica di cattivi presagi e un cameriere sdrucito e maleducato ci ha servito, senza che glielo avessimo chiesto, due caffè espressi tiepidi accompagnati da un diplomatico tagliato in due, con il ripieno di crema rinsecchito.

Senza guardarmi negli occhi l’uomo ha bevuto il suo caffè e poi ha fatto un respiro profondo, pieno di rassegnazione.

Allora, giusto per attaccare discorso gli ho detto “Buongiorno” cercando di sembrare il più cortese possibile, ma lui si è piegato in un pianto soffocato, talmente straziante da farmi sentire in colpa per tutte le sue sofferenze.

Eppure chi aveva combinato l’incontro era stato molto chiaro circa il pericolo di un coinvolgimento emotivo e che avrei dovuto evitarlo in qualsiasi modo altrimenti avrei rischiato seriamente che un poco di quella tristezza mi si sarebbe appiccicata addosso per sempre.

Non ci avevo creduto, ho pensato fossero tutte sciocchezze, tanto che mi ci sono fatto anche una bella risata sopra. Alla fine, con quella spavalderia tipica dei giovani incoscienti, ero andato all’incontro sottovalutando il pericolo ed erano bastati pochi minuti perché l’uomo più triste del mondo mi folgorasse col suo malefico potere.

Quando ha finito di piangere si è ricomposto sulla sedia e si è soffiato il naso rumorosamente. Gli ho detto che qualsiasi cosa fosse stato a renderlo così triste mi dispiaceva tanto e per tutta risposta ha fatto un altro respiro profondo.

Mi ha detto che se non c’era altro lui avrebbe preferito andarsene e prima di salutarci mi ha detto anche che non ci sarebbe più stato bisogno di rincontrarci.

Quando ha girato l’angolo in fondo alla strada, il sole è tornato a splendere e il bar ha ripreso le sembianze a me familiari.

Per provare a scrollarmi di dosso il disagio per quell’incontro surreale, ho fatto cenno al cameriere di portarmi il solito.

Seppur cremoso e denso il cappuccino, questa volta, non mi parve un granché e il cornetto, fragrante e delicato, era decisamente povero nel ripieno di cioccolato.

Per non parlare del conto, scandalosamente salato.

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Chi altri se non lui

Articolo da Men’s Life

Ebbene sì, anche io mi sento diffamato. Già da tempo ormai. Una diffamazione continua, insistente. E non stiamo parlando di frasi riportate su qualche giornale, dichiarazioni tutte da confermare apparse su un blog o sui social network.

Non si tratta di chiacchiere, voci, di schermaglie tra studi legali. Sono tutte diffamazioni belle e buone, spiattellate in faccia per fare male, per provocare, col chiaro intento di rovinarmi la vita.

Sono accuse chiare, circostanziate, diffamazioni ben studiate atte a denigrare, non quelle cattiverie che vengono fuori quando si è arrabbiati, quando dalla bocca escono parole che in realtà non si pensavano affatto.

In quel caso si potrebbe sorvolare, cercare di comprendere il momento, certi che prima o poi delle scuse si riceveranno.

Si potrebbe addirittura convenire che, ancora una volta, la verità sta nel mezzo e che quindi accordarsi per la pace con una bella stretta di mano possa essere la cosa migliore da fare per non rischiare di pregiudicare la serenità di nessuno.

Ma stavolta no, non è proprio più possibile soprassedere, abbiamo passato il limite.

Questo tipo di diffamazioni mi hanno fatto perdere opportunità di lavoro, possibilità di crescita economica e professionale. Hanno minato la mia stabilità mentale, il mio sano equilibrio psico-fisico.

Ormai non sono più un ragazzino. Le spalle saranno pure larghe, ma sono le gambe che spesso vacillano sotto così tanti colpi.

Adesso basta! Voglio denunciare chi mi sta screditando, portarlo in giudizio. Sono pronto ad affrontare un processo, costi quel che costi.

Io stesso sono la prova vivente di quanto queste accuse infamanti siano ingiuste, terribili, pericolose. Il giudice deve darmi ragione, basterà guardarmi negli occhi.

Quello che voglio è un giusto risarcimento per i danni morali ed economici che ho dovuto subire per così tanto tempo. Ho diritto ad essere risarcito con i milioni, dieci, quindici, cinquanta, vedrò col mio avvocato.

Anch’io voglio rinascere ad una nuova vita, chiudere questo capitolo disgraziato e non pensarci più.

Secondo il parere del mio legale, però, non sarà una causa facile. Non è che se ne stia tirando fuori, è che non ci sono mai stati casi simili, per lo meno non a memoria, e quindi sta un po’ trascinando la cosa.

E già, perché io voglio portare in tribunale me stesso, voglio fare causa all’altro “me”, quello che continua a dirmi che sono un fallito, che è meglio che lascio perdere, che sono un buono a nulla.

Voglio chiedere giustizia per essermi ripetuto per anni di essere inadeguato e di non essere all’altezza. Per colpa dell’altro “me” mi sono spesso tirato indietro, non ho approfittato delle occasioni che la vita mi ha messo di fronte, ho rinunciato ancor prima di dimostrare di non essere inferiore a nessuno.

Io lo so. Il mio avvocato non è preoccupato che possa uscirne ridicolizzato, è che sa perfettamente che io non ho il becco di un quattrino e se dovessimo vincere la causa non riceverebbe il suo compenso.

Ma io gliel’ho detto, l’altro “me” non lo conosco bene, per quanto ne sappiamo potrebbe benissimo aver accumulato una fortuna. Anzi, ne sono certo.

Rifletteteci. Chi altri può aver approfittato di tutto quello a cui ho rinunciato se non lui?

È solo trovare le prove.

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L’uomo smemorato

Articolo da Men’s Life di Gaetano Buompane

Sarà capitato certamente anche a voi di essere assaliti da quel sentimento di smarrimento e frustrazione quando improvvisamente sorge dal nulla la netta sensazione di essersi dimenticati qualcosa di importante.

Voglio dire, se il cervello trovasse rapidamente il filo del discorso, se riuscisse con una semplice associazione di idee a soffiare via la nebbia e a ritrovare ciò che vi si era nascosto dietro, non sarebbe una tragedia.

Il problema è che nel mio caso – porcaccia la miseria! – passerò almeno una mezz’ora a posare gli occhi in giro per la stanza alla ricerca di un’immagine, un dettaglio al quale possa attaccarmi per far accendere la lampadina.

E badate bene, non riuscirò a fare nient’altro, perché l’ossessione di riacciuffare quel ricordo prenderà il sopravvento su qualsiasi altro impegno.

Escludendo nella perdita di memoria i sintomi di una senilità precoce si potrebbe parlare, più che altro, di un leggero frastorno ossessivo-compulsivo. Ossia, se non vengo a capo del mistero, mi resta complicato andare avanti.

In mia difesa ci sono studi recentissimi che hanno dimostrato quanto le capacità multitasking del nostro cervello siano un’illusione, una menzogna, soprattutto in una società come la nostra nella quale l’essere umano è costantemente sottoposto ad un eccessivo “sovraccarico cognitivo”.

Questo vuol dire, in sostanza, che per fare bene le cose occorre farle una per volta e sarebbe proprio nel tentativo di gestire più attività contemporaneamente che si finisce per farle tutte superficialmente o, addirittura, si rischia di lasciarne qualcuna indietro.

Ma, a parte questo, è interessante riflettere su cosa reputiamo davvero importante in certi determinati periodi della nostra vita.

Per capirci. Oggi non posso scordarmi assolutamente di strappare via con le pinzette i fastidiosi peli che mi nascono sulle orecchie perché ho già preso appuntamento dal barbiere e non voglio che, forbici in mano, stia lì a fissarmi il trago peloso mentre decide da che parte cominciare a scorciare.

Solo sei mesi fa, quando i capelli me li facevo tagliare da mia figlia di 5 anni e lasciavo che li pettinasse come se fossi un bambolotto e che li colorasse per i suoi esperimenti punk rock, dei peli superflui non me ne importava un fico secco. E quante risate che ci siamo fatti io e lei.

Ma più che altro, in quel periodo di vita lenta, lentissima, la sensazione di aver lasciato qualcosa indietro, di essermi dimenticato qualcosa di importante, non è mai apparsa.

Poi è successo che terminato quel tempo sospeso, siamo tornati a correre all’impazzata, a cercare di far incastrare gli orari con tutte le esigenze familiari e alla fine, che ironia, ci ricordiamo al volo delle cose futili mentre facciamo fatica a ricordarci di quelle importanti.

Di cosa mi sono dimenticato, dunque?

Aspetta un po’. La bambina dovevo andare io a prenderla a scuola?

Se becco tutti i semafori verdi faccio in tempo.

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Quel buco nero dentro l’uomo

Articolo da Men’s Life di Gaetano Buompane

La notizia, ovviamente, è passata in sordina, anzi, diciamo proprio che non se n’è parlato da nessuna parte.

Mi sembra che qualcuno, in una certa occasione, abbia fatto un rapido commento sul valore scientifico della scoperta, ma era stata più che altro una fugace riflessione, uno di quei pensieri ad alta voce che poi quando uno ti domanda “Scusa, che hai detto?” tu gli rispondi “No, niente, stavo parlando tra me e me”.

Ma è chiaro, nel giorno dell’annuncio della presenza di un buco nero al centro della nostra galassia, della foto del denso anello di gas brillante che circonda una massa scura grande quattro milioni di volte quella del sole e distante 27000 anni luce dalla Terra in direzione della costellazione del Sagittario, in quello stesso giorno, dicevo, a nessuno sarebbe potuta interessare la notizia della scoperta di una specie di buco nero, un’ombra di appena qualche centimetro di diametro, all’interno del corpo di un uomo, un uomo qualsiasi, senza ne arte ne parte, posizionata dietro il cuore, incastrata tra i polmoni.

E sì che la notizia era stata diramata da alcune importanti agenzie di stampa prima dell’altra, ma per ironia della sorte con soli pochi secondi di anticipo.

E così era morta lì.

Se quest’ombra fosse stata quella di un uomo famoso, un attore, un cantante, o meglio, un influencer sarebbe potuto diventare un interessante argomento di conversazione all’interno di un talk show della mattina, magari trasformato in un pettegolezzo, un meme da condividere su Facebook.

Ma col buco nero di un perfetto sconosciuto è obiettivamente difficile costruirci una storia e far scatenare un po’ di rumore.

Certamente non adesso coi giornali, il web e i social networks intasati dalle foto dell’affascinante e ipnotico Sagittarius A.

Comunque. Cinque anni fa l’uomo aveva iniziato a sentire un peso al centro del petto, un affanno che si trasformava in dolore.

Il tutto durava alcuni minuti e si poteva presentare a qualsiasi ora del giorno senza un particolare preavviso.

Pensando ad un problema al cuore aveva fatto gli esami di routine, ma era risultato sano come un pesce. Eppure il disagio si ripresentava.

Per anni era diventato habitué delle sale di attesa delle cliniche specializzate finché un medico, un po’ più scrupoloso degli altri, seguendo una propria teoria, lo aveva sottoposto ad attente osservazioni e infilato nella TAC ogni qualvolta l’uomo presentava acuti dolori al petto.

Finalmente, analizzando uno degli ultimi risultati della tomografia computerizzata, aveva notato una pallida macchietta circolare tra i polmoni e il cuore.

“Pronto, ho un tumore! Dottore, quanto mi resta?”. E subito gli era cresciuto quel peso nel petto e quel dolore che per farlo passare doveva alzare le braccia e stirarle verso il cielo.

Il dottore gli aveva detto che quello non era un tumore, ma qualcosa di diverso e tutto eccitato si era precipitato ad informare la comunità scientifica.

Teoricamente tutti sapevano dell’esistenza del buco nero all’interno degli uomini, ma adesso finalmente esisteva una prova schiacciante.

La domanda ricorrente, infatti, era dove andassero a finire tutti i sentimenti repressi, dove soffocassimo le nostre preoccupazioni, tristezze, malumori, la nostra rabbia.

Tutto va a finire in quel buco nero che poi, quando diventa troppo grande si trasforma in dolore fisico.

Grande o piccolo che sia, tutti ne abbiamo uno incastrato al centro del petto e sapere dove andarlo a scovare è un po’ come svelare una parte dell’ignoto che è dentro di noi.

Per qualche giorno c’era stato un certo parlottare, un fermento, un’agitazione carica di speranze. Finalmente si poteva tornare a parlare degli uomini, dei loro sentimenti, delle loro preoccupazioni e porli nuovamente al centro dell’universo.

Finché il buco nero nello spazio ha accentrato su di sé tutte le attenzioni.

E così, mentre il mondo intero ha rivolto gli occhi verso le stelle, quell’uomo qualunque è tornato a guardare dentro se stesso.

Ma adesso che sa di avere quell’ombra incastrata tra il cuore e i polmoni, gli pare di aver iniziato a tormentarsi un po’ di meno.

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La maledetta tentazione

A prima vista potrebbe sembrare una cosa da niente, una semplice debolezza.  Chi non ne ha mai avuta una? Chi non è mai stato provocato da quel diavoletto dispettoso che se la ride osservando i nostri tormenti, in bilico tra pulsioni e razionalità. Ma poi passa, non è vero? Si rientra nei ranghi. Si dà ascolto alla nostra coscienza, si reprimono certi pensieri finché rimane solo un calore indefinito dietro la nuca che lentamente scompare. È così, mi è successo spesso e poi tutto alla fine è filato liscio come l’olio. Fino alla volta successiva. Il vero problema è che la tentazione esprime in sé l’illusione dell’inconseguenza, ecco svelato il potere del suo fascino.

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Le mille promesse dei primi di maggio

Finalmente ha trovato lavoro. Dopo tanto tempo, grazie a Dio, non lo hanno assunto. Finita l’università aveva inviato centinaia di curricula, devo dire con poco entusiasmo e infatti tutti, nessuno escluso, gli avevano risposto celermente e con un certo interesse. Ricordo che passò alcuni mesi chiuso in casa, di malumore, e pensavamo addirittura che fosse caduto in depressione. Non riusciva a capire. Dopo aver studiato tanto, dopo tutti quegli anni di sacrifici, non poteva credere che fossero arrivate così tante offerte di lavoro.

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Il marito dell’astronauta

Ma che bella schifezza, che orrore. Una polemica sterile, gretta, anacronistica, così intrisa di becero maschilismo che non si può che rimanerne indignati. E badate bene, noi uomini per primi. Insommauna donna adulta e vaccinata, che ha studiato e ha fatto dei sacrifici, che ha dimostrato di essere capace e meritevole non può decidere in tutta serenità di starsene cinque mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale che subito tutti lì a criticarla, a dubitare che sia una buona mamma e una moglie amorevole. Suvvia. Sarebbe come dire che in quanto astronauta può pure infischiarsene di stare coi piedi per terra, ma come donna di casa non va proprio bene che stia con la testa tra le nuvole.

– Allora, amore, io sto andando. La cena è nel forno. Vi ho lasciato cibo pronto congelato per cinque mesi. Solo metterlo nel microonde due minuti alla potenza massima. Se ogni tanto ti ricordi di comprare pane e latte non dovreste morire di fame. Sul frigo c’è il numero del centralino della NASA. Mi raccomando, solo per le emergenze. Mi fai uno squillo e quando la Stazione Internazionale passa sopra casa mi infilo la tuta spaziale e faccio un salto. Sinceramente non so se funziona, ma l’ho visto fare in un film. Ah, dato che ci sei, annaffia le piante.

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La minaccia pasquale

Giuro, le abbiamo cercate dappertutto, più di una volta, negli stessi posti dove le aveva lasciate lo scorso anno, ma anche altrove, in luoghi nascosti, credendo che avesse voluto rendere la sfida più divertente, più avvincente. In fondo dove sta il divertimento se le cose che qualcuno ha nascosto per gioco poi si trovano subito? Ma questa volta proprio non c’erano, non è possibile che non siamo riusciti a trovarle e che tra un po’ salteranno fuori come per magia. Non abbiamo preso un abbaglio. Ormai è certo. È triste ma è così, ce ne dobbiamo fare una ragione, il coniglietto della Pasqua non è passato e non ha lasciato le uova di cioccolato.

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La pace in fondo alla prospettiva Nevskij

Sono un essere spregevole, deprecabile. La mia è una vera e propria aberrazione fisica e mentale. Mi sento un reietto della società, vivo nascondendo questo mio segreto, questo mio inconfessabile dramma che mi sta trascinando nella solitudine e nell’angoscia. Sarebbe meglio andarsene perché sono cosciente che prima o poi farò soffrire tutti quelli che mi amano. Dovrei farlo al più presto, prima che tutto venga alla luce, perché sento che il cerchio si stia chiudendo e tutte le prove portano a me. Sono io il mostro? Il castigo per i miei delitti è questo tormento che mi affligge, la paranoia di essere seguito, osservato, ovunque io vada. È lui, perché non lo fermano? perché non lo legano e non lo sbattono in un sanatorio per poi buttare la chiave?

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Uno schiaffo da Oscar

C’è stato un periodo nella mia vita in cui un tipo mi faceva arrabbiare di brutto. Quando lo incontravo mi mandava su tutte le furie e immediatamente iniziavano a prudermi le mani. Non ricordo molto bene che cosa facesse per irritarmi così tanto, fatto sta che il mio volto si stravolgeva in una smorfia di rabbia e odio e con questi sentimenti mi avvicinavo a lui minaccioso. Irrigidivo le dita delle mani e caricavo il braccio con una leggera torsione del busto pronto a sferrargli una sberla con l’intenzione di colpirlo dritto in faccia. Siccome le mie sventole sono come quelle di Bud Spencer che ti sollevano da terra e ti fanno fare la capriola, lo immaginavo già stramazzare per terra chiedendo perdono e scusarsi per tutto il male chi mi aveva procurato. Solo che, con mio grande disappunto, accadeva ogni volta la stessa fastidiosissima cosa: improvvisamente mi mancava la forza.

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La disfatta psicofisica

La mia acidità di stomaco è la prova inequivocabile che l’organismo umano sia un’unità psicofisica inscindibile. Il nostro corpo e la nostra mente sono intimamente collegati, sono in costante connessione al di là della nostra volontà. Questa visione olistica del corpo, secondo la quale, cioè, non è possibile concepirlo come un semplice assemblaggio delle sue varie parti, bensì come una complessa struttura che agisce nella sua globalità, trova la sua conferma nell’immediata ed eccessiva produzione di succhi gastrici nel mio stomaco e il conseguente gonfiore del mio addome allorché anche solo una puntina di stress, una preoccupazione, un disagio legato ad un pensiero storto si formano nella mia mente. Il mio cervello ha un filo diretto con l’apparato digerente, sono complici, se la intendono, interagiscono tra loro attraverso una complessa rete di fibre nervose che non riesco in alcun modo a controllare.

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Un robot per papà

Giorni fa me ne stavo in casa per i fatti miei quando la bambina è venuta da me e mi ha detto che dovevo aiutarla a costruire un robot. L’ho guardata negli occhi e le ho chiesto se avesse sentito bene, se a scuola le avessero detto proprio questo e lei ha fatto sì con la testa prima di correre via impaurita. Ho riempito i polmoni, chiuso gli occhi e fatto un gran respiro. Il momento era finalmente arrivato. Certo non mi aspettavo potesse essere così presto. I fatti, gli indizi sempre più evidenti, tutto faceva supporre che prima o poi potesse accadere, ma non adesso. D’altro canto quale momento migliore. È da tempo che continuo a domandarmi se saremo pronti ad affrontare nuovi e terribili stravolgimenti nelle nostre esistenze.

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Riflessioni di un uomo in attesa

Stavo riflettendo, qui seduto, su come tentare di affrontare questa difficile situazione e sulla necessità di trovare presto una soluzione alternativa all’aspettare che qualcuno venga in mio soccorso. Anche perché, diciamocela tutta, a nessuno piace stare in attesa. Eppure la vita ci mette in attesa in continuazione e quella di attendere pare proprio sia diventata una delle condizioni umane che più ci angosciano, come il soffrire o il morire. Ci sentiamo fatalmente destinati all’attesa, sottomessi allo svolgersi degli eventi o alle decisioni di qualcuno, spesso ai suoi capricci, e questo ci snerva perché nell’attesa non riusciamo a vivere la nostra vita da protagonisti. Diventiamo addirittura irrazionali. Attendiamo fiduciosi, speranzosi, e perché l’attesa finisca siamo disposti anche a votarci a tutti i santi.

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L’uomo vestito a festa

Tra poco, un mese circa, dovrò indossare nuovamente il vestito elegante. L’unico che ho è riposto nell’armadio, imbustato e appeso accanto ai vecchi giacconi invernali da donare, ma che sono ancora lì perché chi lo sa possano ancora servire. Il vestito, un completo blu scuro, taglio classico, lo comprai per il matrimonio di Paolina. Lei è rimasta incinta tre anni dopo, il bambino adesso ha circa cinque anni quindi, facendo un calcolo rapidissimo, non è proprio così sicuro che riesca ancora ad entrarci con disinvoltura. In fondo sono sempre otto anni di panza in più.

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